di Mariano Colla
Il GTE non è la sigla di una vettura sportiva granturismo bensì è l’acronimo di “Grande Traversata Elbana”.
GTE è quindi il nome del suggestivo percorso di trekking che si snoda tra le valli, i crinali, le creste, le baie, i dirupi scoscesi e le vette dell’isola d’Elba. Si tratta di un sentiero immerso nella rigogliosa natura che arricchisce i morbidi rilievi isolani e che l’incipiente primavera punteggia di affascinanti fantasmagorie floreali che vanno dal corbezzolo all’asfodelo, dalla ginestra al fiordaliso, al biancospino, al ciclamino e al mirto, giusto per citare alcune specie. Un ampio corredo di flora con campioni a volte diffusi a volte rari ed esclusivi, i cui profumi si diffondono nell’aria e inebriano l’olfatto.
In tre giorni ho percorso una parte di questo itinerario che, nella sua completezza, da est a ovest richiede circa una settimana per dei buoni camminatori e si articola su una serie di tappe e percorsi diversi a seconda dei gusti e delle esigenze degli escursionisti.
Spostarsi a piedi sull’isola è da sempre una tradizione che dà piacere e soddisfazione.
Ci si può affidare a strutture come il Viottolo (per informazioni +390565978005 – info@ilviottolo.it), che curano l’organizzazione dell’intero itinerario, compreso il trasporto dei bagagli, ovvero a forme autonome di trekking, dove ognuno si organizza il viaggio a proprio piacere con tanto di zaino a spalle. Informazioni relative ai trekking sull’isola d’Elba sono comunque ampiamente disponibili su Internet.
Io ho scelto la forma più artigianale, del fai da te, organizzata con un amico, ed è andato tutto molto bene, anche se mi sono limitato, appunto, a una copertura parziale dell’intero percorso.
Normalmente il GTE parte da Cavo, all’estremità est dell’isola e, infatti, proprio da questo paesino, da cui si vedono in lontananza le scheletriche strutture delle ormai quasi inoperose acciaierie di Piombino, si inizia a salire.
Il sentiero si snoda su e giù per pendii e rigogliose vallate, valicando creste da cui si ammirano scenari mozzafiato, laddove la morfologia dell’isola, ricca di calette e insenature, si distende in continue curvature lambite dal mare, quieto e azzurro in questi primi giorni di primavera, che accoglie, sfumati all’orizzonte, i profili dell’Argentario e del Giglio.
Circondati dalla macchia ci si inoltra per gli antichi viottoli con il volto ancora battuto da un vento fresco e frizzante che non si è ancora congedato per lasciare il posto alle calure estive.
Profumi delicati si diffondono nell’aria nel corso della giornata, con intensità che varia con il passare del tempo, fragranze che si mescolano in un armonioso bouquet all’imbrunire.
Da Cavo si può giungere sino a Porto Azzurro in una sola giornata di cammino, ma ci si può anche fermare prima, se l’allenamento è modesto e si vogliono centellinare le energie. In tal caso, Rio nell’Elba, o Rio Marina, sono degli ottimi borghi in cui passare la notte e godere della quieta atmosfera e dei sapori primaverili che l’isola, discretamente, diffonde.
Fioriture intensamente aromatiche annunciano il risveglio della macchia mediterranea.
Da Rio nell’Elba a Porto Azzurro ci si inerpica per i pendii di Cima del Monte e del Monte Castello, e dai loro crinali si apprezza il suggestivo panorama dei ruderi dell’antico castello del Volterraio che si stagliano, con un profilo zigrinato frutto dell’incuria e della corrosione, sullo sfondo della baia di Portoferraio. Lungo la strada per giungere a Porto Azzurro, sui pendii rocciosi dei monti fanno capolino le variopinte fioriture dalle tonalità che vanno dal giallo al bianco, dal rosa all’azzurro. Tra l’ampia gamma di profumi si stacca, netta, la fragranza dell’aglio selvatico. Qua e là si intravedono, nel fitto fogliame dei lecci, alcuni esemplari di uccelli, che solo gli esperti di birdwatching, assai più di noi, potranno classificare e apprezzare. Si dice che questo sia il regno del gheppio e del falco pellegrino, che nidificano sulle vicine scogliere a picco sul mare.
Per chi ama l’impresa più impegnativa, ovvero scendere per un sentiero scosceso e dirupato, scelta da noi tentata ingloriosamente, si può giungere a Porto Azzurro, passando per il Santuario della Madonna di Monserrato, edificio del XVII secolo.
Viceversa, per chi ama una più dolce discesa, una serie di ampi tornanti lo condurrà ad una rigogliosa radura prima di approdare nella tranquilla baia del vecchio porticciolo che accoglie, nella suggestiva insenatura, piccole barche da diporto, in attesa di chissà quanti yacht, di ben altro cabotaggio, che la stagione estiva condurrà nelle tranquille acque della darsena, circondata da variopinte casette, con le persiane ancora chiuse per l’evidente assenza del popolo dei vacanzieri.
Uno scroscio d’acqua rende l’aria ancora più limpida e trasparente e nelle prime ombre della sera i lampioni che costeggiano le banchine del porto brillano diffondendo una luce sulfurea sugli ampi spazi in cui si affacciano i ristoranti semivuoti.
Per gli amanti delle tappe forzate o, forse, per i camminatori impegnati, quale forse io e il mio compagno non siamo, è possibile, sempre seguendo le tracce del GTE, andare a piedi da Porto Azzurro a Marina di Campo ( circa 20 chilometri), altra suggestiva località della costa sud dell’isola.
Animati tuttavia dal desiderio di cogliere la dimensione più selvaggia dell’isola, ossia la zona che volge a Ovest, su cui troneggia il Monte Capanne, mastodontico blocco di granito alto circa 1000 metri e vetta più alta dell’Elba, ci siamo avvalsi di un mezzo di trasporto pubblico per giungere in località San Piero, piccolo borgo da cui si dipartono i sentieri che conducono verso il fatidico monte e verso l’intera zona che lo circonda, arida e rocciosa, da cui si godono i panorami più emozionanti e completi dell’Elba. A poca distanza da San Piero si possono ancora visitare le antiche cave di granito, attive già dai tempi dei Romani e che, ancor oggi, conservano tracce di colonne alte quasi dieci metri. Lungo la strada si incontrano anche rifugi in pietra a pianta circolare, che nella forma ricordano gli igloo, adibiti ad ospitare pastori e mandrie, ma la cui origine sembra, in base a studi archeologici, molto più antica. L’Elba, particolarmente in questa zona, presenta diverse testimonianze della presenza di nuclei umani nel 500-600 a.c.
I segnavia bianchi e rossi, che indicano i sentieri, funzionano bene sino alla base del Monte Capanne ma, non appena il sentiero si fa scosceso, si deve dire grazie agli altri escursionisti che di qui son passati e che hanno lasciato qua e là piccoli mucchietti di sassi, se si riesce a seguire un percorso senza il rischio di perdersi.
Il Monte Capanne, come detto è un blocco di granito che, col tempo, si è in parte sfaldato, facendo precipitare lungo i suoi fianchi le scaglie della sua potenza, migliaia di lastre di pietra che si sono accumulate le une sulle altre e su cui bisogna arrampicarsi sfidando a volte condizioni di precario equilibrio. Qui, la flora lussureggiante della parte occidentale dell’isola fa capolino con più difficoltà. Muschi e licheni compaiono tra le rocce. Due esemplari di mufloni giovani ci hanno osservato nelle goffe posture imposte dalle spigolosità del terreno e, quasi a voler sottolineare le deficienze dell’essere umano, si sono lanciati in un’agile danza tra i massi con sicurezza e leggerezza, saltellando di roccia in roccia con straordinaria eleganza.
Quasi che il Monte Capanne volesse rafforzare le difficoltà nell’ascesa, una consistente massa di nubi plumbee si è raccolta ad oscurarne la sommità, promettendo scrosci di pioggia che, per fortuna, non si sono manifestati, giacché in tale circostanza la superficie levigata del granito sarebbe divenuta sdrucciolevole e di difficile appiglio anche per le tecnologiche scarpe da trekking.
La sella della Filicaie ( metri 870) è il massimo che abbiamo potuto o forse voluto permetterci. Per andare oltre sarebbe servito più allenamento e una certa professionalità escursionistica che non ci appartengono. Chiunque venga da queste parti è bene che ne tenga conto. Tuttavia, anche rinunciando all’ultimo strappo, ci siamo emozionati nell’ammirare l’imponenza delle due valli che si possono ammirare da quassù, ossia la vallata di Pomonte a sud-ovest e quella della Nevera a nord-est.
All’orizzonte, appena velate dalla foschia, appaiono le isole di Monte Cristo e di Pianosa.
La discesa verso la località di Poggio non è più agevole della salita, anzi.
Un susseguirsi di lastroni di granito incastrati gli uni negli altri, e a cui il vento ha dato spesso fogge stravaganti, rende poco visibile il sentiero e, se da un lato bisogna avere buone gambe per mantenersi in equilibrio, dall’altro bisogna attizzare il senso d’orientamento per non imboccare una pietraia al posto della retta via.
Erica e corbezzoli si alternano ai grandi lastroni color bianco slavato del granito del Monte Capanne e, sebbene i tetti del paesino di Poggio, termine della tappa, sembrino relativamente vicini, muscoli e ginocchia si devono sottoporre ad almeno un paio d’ore di faticosa discesa prima che il sentiero termini direttamente nei vicoli del borgo di Poggio a metri 350. Il nostro viaggio termina in questo graziosa località che si affaccia, come una terrazza, sull’intera costa nord dell’isola.
Nel caldo colore dell’imbrunire, una leggera brezza rimuove le ultime nuvole e, sul mare immobile come una tavola blu, appare in lontananza lo scuro profilo della Corsica. Alcuni gabbiani rompono con il loro stridio il silenzio che sembra regnare sovrano.