di Mariano Colla
Nei giorni scorsi diversi quotidiani e reti televisive hanno riportato la notizia che all’interno della Chiesa sembra risiedere una non meglio specificata “lobby gay”, sufficientemente potente per interagire sull’ordinamento corrente delle attività ecclesiastiche.
Conferme e prove in tal senso, almeno per gli osservatori esterni al Vaticano, sono ancora in fase di confezionamento, tuttavia il problema sembra esistere.
Che le lobbies siano presenti ormai ovunque nel nostro ordinamento politico non è una novità.
I centri di potere fanno parte delle democrazie sin dalla loro nascita ed esercitano sugli esecutivi pressioni di ogni genere, pur di tutelare i propri interessi.
Ora, anche la Chiesa è un centro di potere e non stupisce più di tanto che anche nel regno di Pietro esistano delle lobbies.
Ciò che mi sorprende, pertanto, non è tanto che nella Chiesa esistano delle lobbies, quanto il fatto che una di esse possa essere identificata come lobby gay. Che cosa vuol dire?
Che esistono dei clerici omosessuali che, a differenza dei preti pedofili o degli eterosessuali, esercitano una particolare influenza dovuta proprio alla loro specificità?
La distinzione non mi convince. Non si è peggio o meglio perché si è omosessuali, come non si è peggio o meglio perché si è eterosessuali.
Essere omosessuali non è un reato e né, tanto meno, implica automaticamente un orientamento immorale. Diverso è essere pedofili, laddove il comportamento sottostante ha ben altre implicazioni di carattere etico-morale.
Il problema, quindi, a mio avviso, non è tanto se nella Chiesa esistono degli omosessuali, forse ci sono sempre stati, quanto se essi sono imputabili di qualche malversazione come categoria.
Se di peccato si vuol parlare, sia esso di carattere sessuale o di corruzione o di smodato carrierismo, esso non è imputabile alla omosessualità, quanto all’uomo in quanto tale, senza ulteriori qualificazioni di natura morfologica che sembrano già includere giudizi di merito sull’esistenza di una diversità che, di per sé, alimenterebbe propensioni a comportamenti moralmente sanzionabili.
In ambito psichiatrico, la pedofilia, a differenza della omosessualità, viene considerato un disturbo del desiderio sessuale e non vi è distinzione tra omosessuale ed eterosessuale. Quindi, eliminata quest’ultima categoria, sulla quale la Chiesa da tempo si dibatte per cercare una soluzione onorevole ( per chi?), ritorniamo sul termine gay.
E’ noto come la disputa in corso da tempo sulle unioni tra omosessuali, ha trovato in paesi quali la Francia, la Spagna e, parzialmente, gli Stati Uniti, soluzioni che sanciscono i diritti degli omosessuali nella forma e nei contenuti del tutto simili a quelli degli eterosessuali. Ciò ha determinato violente manifestazioni da parte di coloro che ancora ritengono i soggetti appartenenti alla categoria gay come dei diversi, come soggetti che infrangono le regole della comunità eterosessuale, regole secondo molti, non negoziabili.
Il termine gay sembra quindi venir assunto in tutta la sua negatività, come portatore di valori etici discutibili, anzi come possibile personificazione del peccato.
Che all’interno della Chiesa possano esistere dei mali lo ha dichiarato recentemente anche Papa Francesco. Che poi sia effettiva l’esistenza di gruppi che, facendo leva su ricatti di natura sessuale, possono condizionare l’ordine curiale non vi è certezza ma le voci sono tante.
Se nelle buone intenzioni del nuovo pontificato, intenzioni peraltro emerse nel Ratzinger degli ultimi mesi, vi è, come pare, il desiderio di ripulire vecchie incrostazioni, al fine di ridare alla Chiesa quella purezza originaria da tempo auspicata, forse può essere sviante categorizzare il peccatore anziché isolarlo e condannarlo come individuo.
foto: queerblog.it