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Siria e Yemen: continuano a bruciare le rivolte nel Medio Oriente

di Paolo Cappelli


Il vento di rivolta che spira  in Africa e nel Medio Oriente, sta portando molti Paesi sulla strada di una democratizzazione accelerata. Ciò significa, in primo luogo, disfarsi dei regimi attualmente e da troppo tempo in carica, per poi muovere lungo la strada delle riforme costituzionali e istituzionali. Al fenomeno non sfuggono la Siria e lo Yemen. La prima in particolare è protagonista degli accadimenti della storia moderna di maggior rilievo nella regione, nel bene e nel male.

La Siria e la sua leadership stanno vivendo un momento nodale in vista del proprio futuro. In particolare la seconda, si trova di fronte a un bivio: deve scegliere se, da un lato, intraprendere un’iniziativa politica audace atta a convincere il popolo siriano che il regime è pronto a cambiamenti profondi, oppure, dall’altro, accrescere la pressione e aumentare la repressione, scelta che avrebbe delle immaginabili, violente conseguenze. Nuove manifestazioni contro Bashar Al-Assad si sono tenute nei giorni scorsi a Deraa, cittadina nel sud del paese. La polizia avrebbe sparato sulla folla, come testimonierebbero alcuni filmati amatoriali presenti in rete. La ribellione, che si sta estendendo a macchia d’olio, ha indotto il presidente siriano a valutare alcune riforme, come l’apertura al multipartitismo e la fine dello stato d’emergenza in vigore dal 1963. Un suo annuncio in tal senso è fortemente atteso. Ma l’analisi che si può fare è ovviamente più complessa.

Il regime si trova di fronte a tre sfide, tra loro interconnesse. In primo luogo, esiste nella società siriana nel suo complesso una sensazione di stanchezza e di insofferenza verso ciò che fino a questo momento è stato supinamente accettato o sopportato: l’arroganza del potere in ogni sua forma, compresa la brutale repressione di ogni dissidente, la dura propaganda dei media e le vaghe promesse di future riforme. Secondariamente, il paese è affetto da una lunga serie di costrizioni e oneri sociali che, nel loro insieme, contribuiscono a ravvivare il fuoco della ribellione, segnatamente il crescente costo della vita, l’assenza o il cattivo funzionamento dei servizi al cittadino, la disoccupazione, la corruzione e una tradizione di abusi da parte dei servizi di sicurezza. In diverse parti del paese, il fondamentalismo religioso, e il settarismo del nazionalismo curdo rappresentano altre facce di una realtà poliedrica, della quale non si possono dimenticare la scarsezza delle risorse idriche e la devastazione delle colture. La terza di queste sfide riguarda i confini esterni e i molti, veri nemici del regime, tutti ansiosi di cogliere una rara opportunità per accelerarne la dipartita. Le autorità cercano di scaricare la responsabilità di queste pressioni sull’opposizione in esilio, sugli elementi jihadisti “allevati” sul suolo nazionale, sugli “stranieri” locali (prevalentemente i residenti di discendenza palestinese e turca) e sulle compagini politiche straniere ostili, prevalentemente statunitensi, israeliane, libanesi e saudite. Sono queste le ragioni che il regime propugna, almeno dichiaratamente, a sostegno dei propri sforzi contro le minacce all’unità nazionale, l’interferenza straniera, il secessionismo etnico e l’illegittimità dei siriani in esilio, che accusa di fomentare il risentimento popolare. Difficile non rilevare come questi e altri problemi si sommano alle necessità di gestione del desiderio popolare, per troppo tempo tenuto ai margini, di un cambiamento radicale e della sempre maggiore consapevolezza, da parte di quello stesso popolo, che il regime è ormai incapace di passare da una logica di mera sopravvivenza a una di responsabilità.

Alla luce dei recenti eventi si può ipotizzare una finestra di opportunità che però sembra chiudersi in fretta. Il presidente Bashar Assad ha accumulato un capitale politico significativo e molti siriani sono ancora disposti a concedergli il beneficio del dubbio. Ampia parte dell’opinione pubblica, infatti, è in attesa di vederlo prendere le redini della situazione e annunciare, prima che sia troppo tardi, un’alternativa alla spiralizzazione degli eventi. Per contro, di fronte a sfide multiformi e cruciali e soprattutto mai affrontate, l’establishment siriano si muove come un pachiderma barcollante e intraprende azioni che generano un senso di confusione, continuando ad appoggiarsi alle malsane, violente abitudini. I messaggi del potere sono, per ora, tutti negativi e vengono mal digeriti da una popolazione che non è disposta ad attendere oltre che il regime agisca concretamente sulla base di un’idea credibile per il futuro del paese.

Il capitale politico di Assad, cui si accennava prima, dipende oggi meno dai suoi successi in politica estera e più dalla sua abilità a soddisfare le legittime aspettative popolari in un momento di perniciosa crisi interna. Le repressioni avvenute sotto la sua responsabilità gli stanno costando molto e solo lui può provare che il cambiamento è non solo possibile, ma già in corso, e ripristinare quella trasparenza di intenti e d’azioni che dovranno guidare il paese attraverso un percorso di rinnovamento strutturale.

Diversa è la situazione dello Yemen. In questo paese, infatti, ancor prima che le proteste popolari valicassero i confini di Egitto e Tunisia, il regime del Presidente Saleh si trovava ad affrontare sfide di proporzioni eccezionali: un sempre più forte movimento secessionista nel sud e la ribellione degli Houthi nel nord, conflitto questo, nato cinque anni fa e trascinandosi fino ad oggi con fasi alterne di maggiore o minore violenza. L’episodio che può essere considerato come la scintilla che fece degenerare la crisi in un conflitto aperto fu l’uccisione del leader del movimento sciita, Hussein al-Houthi, ad opera delle forze governative dello stesso presidente Abdullah Saleh. A questo si aggiunge il quadro di generale complessità in cui è inserito il paese: il crescente attivismo di Al-Qaeda nella Penisola Araba, l’immobilità della classe politica yemenita, impantanata da due anni in una battaglia per le riforme costituzionali ed elettorali, il costante peggioramento delle condizioni economiche del cittadino yemenita.

Gli eventi del Maghreb sono stati d’ispirazione nel trasformare la natura della mobilitazione sociale secondo modi, tempi e spazi difficilmente immaginabili. Tra i protagonisti, generazioni di attivisti che hanno coscienziosamente imitato i metodi e le richieste dei propri fratelli, invadendo le strade e chiedendo apertamente la deposizione di Saleh e un cambio di regime. L’opposizione ufficiale, i leader tribali e gli esponenti religiosi si sono inizialmente tenuti in disparte, ma quando la protesta ha guadagnato importanza e le forze di sicurezza governative hanno fatto ricorso alla violenza vera, si sono uniti a molte delle istanze più profonde dei dimostranti.

Sorpreso da tanta pacifica, massiva e – a suo modo – organizzata protesta nelle “giornate della rabbia”, le risposte del governo sono state variegate: dalla violenza negli arresti, alle percosse, fino alle uccisioni di 52 dimostranti da parte dei cecchini appostati sui tetti di un palazzo governativo. Il regime ha anche assoldato dimostranti per esprimere sostegno, organizzando massicce contromanifestazioni. Saleh gode ancora di un buon sostegno grazie a lealtà di origine tribale alimentate da un ramificato sistema clientelare. In queste settimane, ha promesso che non si sarebbe ricandidato e non avrebbe favorito l’ascensione del figlio. Di fatto, ha ridotto le tasse e aumentato i salari dei dipendenti pubblici e dei militari, avanzato proposte per la stesura di una nuova costituzione che assegna maggiori poteri al parlamento e per lo scioglimento del governo. Ha promesso, inoltre, che entro il mese di gennaio si sarebbero tenute libere elezioni.

Nessuna di queste tattiche, tuttavia, sembra aver sortito gli effetti desiderati. La violenza è tornata indietro come un boomerang, fomentando il movimento dei giovani e ingrassando ancor più le fila degli oppositori. Le concessioni del presidente, per quanto possano sembrare di ampio respiro, sono considerate insufficienti e vuote da tutti coloro che continuano ad affollare le strade.

A similitudine di quanto già avvenuto in Egitto e in Tunisia, non è difficile ipotizzare un tramonto dell’era Saleh, prevalentemente per una serie di fattori che accomunano gli abitanti di questi tre paesi: la povertà, la disoccupazione e la diffusa corruzione. Vista la posizione del momento, il presidente yemenita non può certo stare tranquillo. Come in altri casi recenti, i dimostranti chiedono innanzitutto una cessione incondizionata del potere, nonostante i metodi di repressione cui sono sottoposti. Ma lo Yemen non è né l’Egitto, né la Tunisia: il suo regime è meno repressivo, più flessibile, per quanto resista a mollare la presa, e ha elaborato un sistema di favoritismi e protezione tale da scoraggiare chiunque voglia affrontare il presidente direttamente. Inoltre, per quanto poco efficienti, il paese dispone di istituzioni attive, compreso un sistema politico pluripartitico, un parlamento e un governo locale. Esistono quindi spazi per il confronto e la contestazione politica, nonché per i negoziati e il compromesso. Inoltre, esistono differenze significative in termini di dinamiche sociali: le affiliazioni tribali, le differenze regionali e l’ampia disponibilità di armi, particolarmente nella zona montuosa del nord, saranno i fattori chiave nel determinare l’evoluzione della transizione. Lo spettro di una guerra tribale agita gli animi di molti yemeniti.

Ma l’arte del compromesso, questa volta, non sarà semplice. I manifestanti non accetteranno nulla che non sia l’allontanamento del Presidente Saleh, mentre quest’ultimo e il suo seguito, in quanto beneficiari degli effetti della sua permanenza, non si arrenderanno senza combattere. Il regime, per placare gli animi, dovrà fare concessioni significative, molto più ampie in portata e profondità, di quelle annunciate finora. Venerdì scorso a Sanaa è stata la volta della “giornata della dipartita” decine di migliaia di oppositori sono scesi in strada chiedendo ancora una volta le dimissioni immediate del proprio leader politico. Lo Yemen occupa una posizione strategica rispetto al transito verso il canale di Suez. Per questo e altri motivi, il presidente Saleh è, di fatto, un alleato degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita nella lotta al terrorismo. In un discorso televisivo, ha evocato lo spettro di al-Qaeda, che, a suo dire, potrebbero sfruttare la confusione di una transizione disordinata. Per questo, Saleh si è detto disposto a cedere il potere per evitare ulteriori spargimenti di sangue, ma “solo in mani ‘sicure’ e non di persone ‘animate dal risentimento e corrotte’. A questo punto – Gheddafi docet – c’è da sperare che Saleh non si renda conto che la sua logica del dominare fazioni artatamente poste l’una contro l’altra è fallita e che, in un colpo di coda, non lanci i suoi mastini della guerra contro i manifestanti, rivelando una ferocia senza precedenti e aprendo un nuovo fronte di instabilità con cui la comunità internazionale dovrebbe comunque e inevitabilmente confrontarsi, ma questa volta, con ogni probabilità, con un atteggiamento e una compattezza diversi.

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