Scritto nell’estate del 1978, a distanza di pochi mesi dai fatti, l’Affaire Moro di Leonardo Sciascia è forse un esempio di instant book ante litteram. Sciascia, contrario al compromesso storico e in rotta con il PCI, analizza in profondità il poco materiale disponibile sul caso Moro, del quale si occuperà negli anni successivi quale membro della Commissione parlamentare di inchiesta. Il “poco materiale disponibile” per la scrittura del libro si può elencare facilmente: i comunicati delle BR e gli articoli pubblicati sui giornali nei 55 giorni (il dizionario del Tommaseo, citato in varie occasioni, non è esattamente una fonte). Il tutto tenuto insieme dal talento dell’«intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero» (Pasolini viene richiamato esplicitamente da Sciascia, ma l’accostamento sarebbe stato naturale).
Da intellettuale, infatti, Sciascia intuisce l’importanza dell’allora – e, per molti versi, tuttora – inedito “memoriale Moro”, come saranno poi ribattezzate le carte scritte dal presidente della DC durante la prigionia. Solo nel 1990, infatti, furono scoperti in via Monte Nevoso, a Milano, i documenti che riguardavano la struttura Stay Behind (Gladio) – curiosamente, nessuno nell’ottobre del 1978 li aveva trovati. Lo scrittore individua correttamente le divisioni tra i brigatisti, e riconosce nel falso comunicato numero sette (non era ancora noto l’autore, Chichiarelli, un falsario legato alla banda della Magliana) un fondamentale snodo della vicenda. Sciascia rende giustizia alla figura di Moro, sgombrando il campo dalle mistificazioni democristiane che lo volevano Statista integerrimo, reso purtroppo incapace di intendere e volere dalla condizione di prigionia. Al contrario, secondo lo scrittore siciliano, il presidente della DC era perfettamente lucido e non si capacitava dell’atteggiamento improvvisamente rigido dei suoi compagni di partito (tre anni più tardi, in occasione del sequestro Cirillo, la reazione al rapimento fu molto diversa): Moro reclamava un trattamento da prigioniero di guerra, per la cui liberazione è legittimo trattare, rivendicando anche sue posizioni espresse in tempi non sospetti. Insomma, qualcosa di molto lontano dal servitore della Ragion di Stato che mette in secondo piano la propria vita. Se vogliamo trovare un neo, Sciascia forse trascura di controllare (e forse lo fa intenzionalmente, spingendo il lettore a controllare da sè) chi fosse il Caetani che dà il nome alla via in cui fu fatto ritrovare il cadavere di Moro: non era nè l’arabista nè, genericamente, la famiglia a cui appartenne papa Bonifacio VIII, bensì Michelangelo Caetani, apprezzato dantista. Ed è un peccato che non l’abbia sottolineato, perchè si sarebbe potuto collegare a un’interessante osservazione che si legge nelle prime pagine: «Prima che lo assassinassero, [Moro] è stato costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo “linguaggio completamente nuovo”, sul suo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare utilizzando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata».
Inquietante è però il finale, dal sapore profetico per il lettore di oggi che conosce il seguito: è il 24 agosto 1978, e Sciascia ricorre a una citazione di J.L. Borges (Ficciones): «Ho già detto che si tratta di un romanzo poliziesco… A distanza di sette anni, mi è impossibile recuperare i dettagli dell’azione; ma eccone il piano generale, quale l’impoveriscono (quale lo purificano) le lacune della mia memoria. C’è un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai l’enigma, c’è un paragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: “Tutti credettero che l’incontro dei due giocatori di scacchi fosse stato casuale”. Questa frase lascia capire che la soluzione è sbagliata. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un’altra soluzione, la vera.»