di Mario Masi
Tutte le cose che ci circondano vibrano di onde sonore. Il grembo materno è stata la nostra prima orchestra. Spesso la musica è la strada più veloce per evocare ricordi, sensazioni, emozioni. Già nel IV Sec. a.C. Aristosseno individuò una musica diastatica e una sistaltica, in grado di produrre o bloccare un atto di volontà e una musica esicastica, in grado di produrre uno stato di ebbrezza. Per Platone la base matematica che regola l’armonia rifletteva l’ordine naturale del cosmo. Il suono non è recepito solo dall’orecchio, ma da tutto il corpo. Il suo impiego a fini terapeutici è ormai una pratica diffusa.
Filippo Massara, che da oltre 50 anni si occupa della ‘scienza degli ascolti musicali’ e delle potenzialità a livello psicologico e terapeutico della musica e del canto, spiega come: «La maggior parte delle persone crede di accogliere la musica soltanto attraverso i canali uditivi. Spesso però non soltanto non l’accoglie, ma la subisce. La musica è prima di tutto un avvenimento corporeo. È il senso del tatto a essere totalmente coinvolto dal suono, attraverso quel potente e raffinatissimo organo che è la pelle. L’involucro che ci protegge e che ci mette in comunicazione con il mondo. La pelle conserva le memorie implicite dei nostri primi 45 mesi di vita: 9 nel ventre materno e 36 dopo la nascita». L’intensità quindi degli stimoli musicali nella vita prenatale e postnatale comporterà una migliore possibilità di sviluppare in età adulta la capacità di vivere in profondità il piacere della musica. È la “memoria implicita” che il neurofisiologo prof. Mauro Mancia riconosceva come il momento fondante di tutto il futuro dell’individuo.
«Sotto l’effetto del suono – continua Massara – chi ascolta si trasforma in un diapason vivente e senza accorgersene attiva sulla pelle dei ricettori che trasformano la vibrazione in piacere. La pelle vibrando coinvolge tutte le cellule e fa dilagare il suono dappertutto. Il corpo coinvolto dall’onda musicale subisce, da un lato, una trasformazione fisico-chimica e dall’altro lato, assapora l’indicibile sensazione di un flusso di carezze amorose. La presenza delle fibre nervose C (scoperte qualche anno fa e chiamate dagli scopritori “le fibre dell’affettività”) nelle nostre strutture sensoriali è determinante per l’accensione della sensazione di quello che definiamo ‘l’indicibile piacere della carezza musicale’».
Questo processo stimola non solo alcune aree del cervello atte a produrre sostanze legate ai circuiti cerebrali degli oppiacei ma anche il ventre, che non a caso definito il nostro secondo cervello, è coinvolto.
Ma è necessario saper ascoltare. «L’ascolto musicale in profondità significa sapere che devo ascoltare il corpo e non la musica, che devo prendere coscienza del mio respiro anche come manifestazione fisiologica del “soffio vitale”. L’ascolto in profondità è il trasformare un ascolto musicale in ascolto di sé.
Cioè l’applicazione,nella nostra dimensione occidentale,di un’antica scienza cinese, il “naishi”, cioè l’arte di guardare dentro il corpo”».
Bisogna dunque imparare ad “ascoltarsi” per mezzo della musica. Diventare coscienti di qualcosa di assolutamente personale. Ma i suoni possono veramente guarire dalle malattie? Massara mette innanzitutto in guardia dal fatto che non è possibile approfondire il tema della musica come strumento terapeutico separandolo dagli studi di neuroendocrinologia , di neuropsicologia, di fisica quantistica e acustica, e dalle ricerche sull’origine e l’evoluzione di ciò che definiamo coscienza. È importante poi che non si generino equivoci: «dobbiamo ricordare sempre che la musica ha su di noi un alto impatto emotivo ma non si hanno ancora delle risposte concrete e definitive sui perché. In generale possiamo affermare che la musica, per il tipo di impatto profondo che ha sul nostro sistema emozionale, può essere utilizzata con buoni risultati in ambito terapeutico. Rappresenta certamente un efficace complemento a trattamenti di rilassamento corporeo e mentale, nei disturbi di apprendimento, in alcune forme di patologie psichiche e di disturbi del comportamento sociale».
Una delle curiosità riguardanti la musicoterapia è sempre stata quella delle musiche capaci di avere tali effetti. Dato che gli effetti psicologici e fisiologici di un brano dipendono da diverse variabili, ogni specialista segue delle scelte che sono il frutto anche delle proprie esperienze.
Il celebre musicoterapeuta francese Jacques Jost ha adottato un metodo largamente seguito che prevede “La gran marcia” dal Tannahauser di Wagner per un lavoro di bonificazione. Per ottenere un rilassamento sono consigliate “La danza della regina” dal Lago dei Cigni di Tchaikovski e il “Largo” dall’opera Serse di Haendel.
Per chi ha bisogno di calmarsi, Jost consiglia l’‘Aria della “Suite n°3 in re maggiore” di Bach o l’ “Intermezzo” dalla Cavalleria Rusticana di Mascagni.
La musica classica consentiva ai primi musicoterapeuti dell’ultimo secolo di giocare la carta della “tonalità”, ma anche degli “accordi” consonanti o dissonanti, della ricchezza di moduli melodici e ritmici e della varietà degli strumenti musicali utilizzati. Soltanto negli ultimi 20 anni il repertorio delle musiche utilizzabili in terapia si è arricchito di brani musicali in cui esperienze etniche e classiche si sono fuse.
«Mancano tuttavia – tiene a precisare Massara – dei protocolli esecutivi e di analisi che consentano delle statistiche . Qualche dato interessante già esiste, ma è troppo poco. Per convalidare i diversi dati e verificare l’efficacia dei diversi trattamenti con la musica, dobbiamo augurarci che si attivi, in ambito clinico, una sempre maggiore collaborazione tra i medici e gli operatori sanitari che propongono la musica come strumento terapeutico. Abbiamo bisogno di ampie conferme scientifiche. Ne deriverebbe un gran vantaggio per tutti».