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Testamento biologico: realtà o farsa?

di Mariano Colla
Scriveva Spinoza: “Il potere non deve avere il potere di togliere la libertà. Devo obbedire ma non fino al  punto  di rinunciare alla mia libertà. Quindi non bisogna sempre obbedire”.
Purtroppo il potere può essere esercitato anche in democrazia, quando viene ignorato lo spirito del dialogo e i principi di una maggioranza vanno ad inficiare la libertà della collettività.
La democrazia, invece, richiederebbe  ben altro. Infatti, come ha detto Zagrebelsky in un suo saggio, :“la democrazia è relativistica e non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme  e come potere che da essa promana non ha fede o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa. Non si può volere la democrazia e al contempo irretirla in dogmi”.
Più di un anno fa la morte di Eluana ha scatenato una rovente polemica  sul “fine vita”  di persone prostrate da malattie irreversibili, nel peggiore dei casi in stato vegetativo o di totale mancanza di coscienza. A lungo si è dibattuto sui limiti etici dell’intervento umano nel regolare l’oscura area che separa la dignità e la volontà dell’individuo dalla dimensione trascendente della vita, quando essa, drammaticamente, volge al suo termine.
In quel caso intervenne la magistratura a sanare la pietosa diatriba, in contrasto con una politica invadente che, nell’occasione, si era  eretta a difesa di valori di parte, intesi come  unici valori a cui attenersi, politica peraltro sostenuta veementemente  dalle forze vaticane.
Ora è all’ordine del giorno il tema del testamento biologico, tema  che agita le coscienze di legislatori, prelati, medici e comuni cittadini. In realtà coscienza non è forse il termine più appropriato. E’ diffusa la convinzione che dietro al tema in oggetto si agitino interessi politici ben più ampi, una partita del “dare e avere” che ha ben poco a che fare con un limpido discorso di coscienza.
In questi giorni la Camera ha approvato il testo della nuova normativa che dovrebbe regolare la materia e, anche se sarà necessario il passaggio al Senato per l’approvazione definitiva, i contenuti del disegno di legge hanno scatenato osservazioni e polemiche da parte non solo dell’opposizione, ma anche da parte di una collettività di persone, sdegnate da una direttiva che viola un sacrosanto diritto dell’individuo, ossia quello di essere responsabile della propria esistenza e della fine di essa.
La nuova normativa si chiama DAT: “Dichiarazione Anticipata di Trattamento”. Essa prevede la manifestazione anticipata di volontà di una persona  in merito alle cure a cui sottoporsi, nel caso  essa non sia più in grado di esprimere esplicitamente le proprie determinazioni. Sono otto articoli, attraverso i quali ogni persona dovrebbe poter esprimere come vuole essere assistita  (o magari non assistita, ma la legge al momento non lo prevede) nelle fasi terminali della propria esistenza.
Il punto è che il medico potrà tener conto del testamento del paziente solo quando per soggetto assistito si verifichi lo stato di “morte corticale”, ossia quando l’encefalogramma è piatto, in altri termini quando il corpo è pronto per l’espianto degli organi. Negli stadi antecedenti, per quanto gravi e lesivi della dignità umana, la volontà del paziente potrà essere tranquillamente ignorata. In sostanza a nessuno sarà garantito il rispetto delle sue volontà, né si potranno indicare i trattamenti sanitari  cui non si vuole essere sottoposti.
Allo stato attuale del percorso legislativo sul “fine vita” non sembrano esistere diritti, perché la vita è intoccabile, anche se mia, per l’impropria  assunzione di una sua sacralità.
Tanto si è detto e tanto si è scritto sull’argomento. Cardinali, politici, giuristi, scrittori, opinionisti hanno vivisezionato il concetto di vita, le sue origini e il suo destino, e poco di più si può aggiungere; tuttavia sento la necessità di fare mie alcune piccole osservazioni.
Iniziamo dal concetto di vita come “dono”.
L’uso del termine “dono” è improprio, in quanto, nel lessico comune, il termine “dono” implica ciò che viene dato per pura liberalità o concessione disinteressata o abnegazione, e di cui l’uomo fruisce. In tale definizione non è sottinteso che il fruitore del “dono” abbia degli obblighi nei confronti del donatore al di là di una pura gratitudine,  e non è in alcun modo implicito che il destinatario del “dono” sia obbligato a goderne anche  quando il “dono” stesso è privo delle determinazioni originarie.
Sono passati quattro secoli da quando Cartesio ha rimosso l’uomo dall’ambito creaturale per collocarlo in un nuovo ruolo, ruolo in cui viene finalmente valorizzato il concetto di “soggetto”.
Il termine testamento o DAT implica l’espressione di una volontà individuale, dei “desiderata” di un soggetto che intende, nel caso specifico della sua morte, richiamare i propri diritti sul fine vita, soprattutto quando tale vita perde la propria dimensione cosciente e si inoltra nei meandri della sopravvivenza vegetativa.
Senza voler scomodare Heidegger, che vedeva nella morte e nei suoi presupposti la possibilità più propria e cioè più autentica del progetto di vita umana, mi preme riportare il pensiero del filosofo spagnolo Savater: “la vita è una dimensione biologica e un’esperienza simbolica”, a rappresentare il concetto che è solo la contemporaneità delle due dimensioni che può essere definita vita, mentre, la mancanza di una delle due, la priva di un significato ontologico. Affermare  che la vita è un bene indisponibile di cui non possiamo decidere, oppure che non è lecito lasciarsi morire, e trarre da tale premesse una normativa “politico-sociale”, restrittiva della libertà dell’individuo, non è segno di maturità democratica.  Ciò che è un valore per un individuo non lo è necessariamente per l’altro.
Se per il credente la vita non appartiene al “soggetto uomo” e, conseguentemente, tale soggetto non può gestirla secondo canoni individuali, lo stesso credente non può ignorare l’esistenza di posizioni diverse e, in uno Stato laico, il politico prima, e il legislatore dopo,  non possono trascurare le differenze insite nella collettività su temi di tale portata. La libertà di un individuo cessa quando essa lede la libertà altrui. Una diversa concezione della vita determina una diversa etica che, ripeto, uno Stato laico non può trascurare. Ed è grave interpretare tale principio di democrazia come deriva laicistica, per usare un termine, impropriamente impiegato per definire tale linea di pensiero.
In una visione non clericale, gli stessi cattolici hanno dei seri dubbi sulla democraticità del disegno di legge sulla  DAT recentemente approvata alla Camera.
Rosy Bindi, vicepresidente della Camera, cattolica per esplicita ammissione e credo politico ha affermato: “Chiedo alla maggioranza, a quale antropologia state ispirando questa legge? Non certo a quella liberale e a quella cristiana. Con questa legge la persona viene espropriata da un legislatore autoritario e distante, incapace di vedere quel che si muove nel cuore delle persone”.
Forse categorie di medici si sentiranno sollevati dalla normativa sulla DAT e gli scrupoli morali e religiosi troveranno una loro giustificazione formale. Tali categorie non si devono tuttavia dimenticare che già esiste l’obiezione  per sanare i conflitti di coscienza.
Sennonché  molti clinici ritengono che l’attuale impostazione legislativa alteri il ruolo del medico, il quale rischia di essere incriminato per omicidio, nel caso non aderisca a una normativa che è in evidente contrasto con il suo codice deontologico, codice orientato a una forma di alleanza con il paziente.
Concludo con quanto il teologo Vito Mancuso, ottimisticamente, affermava poco tempo fa: “sul testamento biologico, io penso che il compito dello Stato sia precisamente quello di produrre, a partire dalle diverse etiche dei cittadini, una legge ove tutti vedano riconosciuta la possibilità di vivere e di morire secondo la propria concezione del mondo. Se lo Stato fa questo, realizza la giustizia, che, com’è noto, consiste nel dare a ciascuno il suo. La distinzione tra etica e diritto è decisiva”.
La democrazia è necessariamente relativistica ed è basata sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri e, in tale ruolo, è pericolosamente insidiata da chiunque anteponga il proprio credo etico-religioso alle giuste rivendicazioni della collettività.

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