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Voglio un mondo di regole

di Paolo Cappelli
Le voglio chiare, osservate da tutti, senza distinzioni. Non digerisco le invocazioni all’uguaglianza basate su un criterio livellatore, come se tutti fossero uguali. Non siamo tutti uguali, per tanti motivi.
Lo siamo di fronte alla legge, c’è scritto in ogni tribunale, ma ci sono garanzie per chi svolge un’attività nobile come la politica. Che poi chi la svolge non si comporti in maniera nobile, è un’altra questione e non di poco conto. Ma si torna alla pretesa iniziale: voglio delle regole che tutti devono sentirsi obbligati a rispettare. Non ne posso più di sentire il vicino che alza la musica a tutto volume, la strada bloccata da quello che ha lasciato la macchina in doppia fila per prelevare al bancomat, l’indifferenza di quelli che si meravigliano quando trovano mummificato il vecchietto “che non si vedeva da un po’”, ma che gli viveva accanto da 10 anni.
Qualcuno obietterà, lo so. Dirà che in fondo “non c’e’ niente di male a tenere la radio a mille watt quando si fanno le pulizie”, che viviamo in un paese libero. Eh no, di male c’è più di qualcosa. C’è che in uno stato di diritto ognuno fa quello che la legge gli consente, non quello che vuole lui. Altrimenti non è uno stato di diritto, ma anarchia.
E se questo vale per uno, figuriamoci quanto può valere per i molti, o per l’uno che rappresenta i molti.  Se hai l’onore e l’onere di rappresentare qualcuno, il tuo dovere di rispettare le regole è ancora maggiore, è la somma del dovere individuale e delle persone che ti hanno chiesto di parlare a loro nome. Perché la rappresentanza è questo: parlare a nome di qualcun altro, averne ricevuto la fiducia, che riguarda non solo il saper fare, ma anche il farlo secondo le regole. E se  non ti piacciono quelle regole, a meno che tu non sia un detenuto, sei libero, perché vivi in uno stato di diritto, di dimetterti e andare per la tua strada. Ed è più grave se violi le regole da rappresentante, perché è come se, idealmente, avessi costretto a violarle tutti coloro che rappresenti.
Le scene susseguitesi nei due rami del nostro Parlamento ieri ci hanno proposto un déja vu, riportando il calendario ai primi anni ’90, quando ci furono, solo nel 1993, ventotto richieste di arresto di deputati. E non si tratta semplicemente di un ricorso storico, ma di una costante materiale: la forte idiosincrasia di alcuni verso le regole, la costante e ripetuta violazione del dovere, la volontà dolosa di andare oltre il limite in ciò che si vuole, ma di rimaner al proprio posto, sempre e comunque, fino all’obbligo impellente.
Non siamo tutti uguali: non lo siamo perché ad alcuni è riservato il diritto di non essere sottoposto a misure di limitazione della libertà personale a meno che un’intera assemblea non dica che ciò è possibile. Sapete una cosa? Lo trovo giusto. Chi rappresenta il Popolo nell’assise più alta che la nostra Costituzione contempla non può essere oggetto di questa o quella denuncia, per fatti magari propalati artatamente da questo o quell’avversario politico per togliere di mezzo il rivale. Sono un garantista e credo che ognuno, rappresentante o meno, abbia il diritto di difesa a oltranza, in tutti i gradi di giudizio che il nostro sistema prevede. Ma non come rappresentante. Come rappresentante, se sei sospettato di aver violato le regole, devi concentrarti sulla tua difesa, per poi tornare, in caso tu venga scagionato, da rappresentante del Popolo a pieno titolo. Quello è colui dal quale mi sento rappresentato. Non da altri.
Non è un caso che in altri Paesi molti rappresentanti scelgano la via delle dimissioni quando sono ancora sospettati e prima di essere accusati: in caso di condanna, l’essere un rappresentante, od occupare un pubblico ufficio, è un’aggravante e comporta una pena più severa.
La giornata di ieri, la votazione alla Camera sulla concessione dell’autorizzazione all’arresto dell’onorevole Papa (concessa) e quella al Senato per il senatore Tedesco (negata) non è che l’ultimo tassello di un’equazione complessa, ma con un denominatore comune: il mancato rispetto delle regole. Mani Pulite iniziò così, lo sanno tutti, specie nei palazzi dove le regole si fanno e fuori dai quali si trasgrediscono. L’anima inquieta di Bettino Craxi, morto in esilio da un Paese che lo riconosceva colpevole, insieme a tanti altri a lui legati, aleggiava ieri in una Camera dei Deputati che definire spettrale è poco. Le facce di tutti erano profondamente segnate da quello spettro, dalla certezza che ieri non si è solo autorizzato un arresto e bloccato un altro, ma che tutti sono pronti a dare il proprio contributo in maniera autonoma, senza più rispettare i dettami del Partito. Il blocco unico non c’è più, c’è la coscienza, la volontà di rispettare le regole. E fa paura il voto segreto. Ormai tutti si guardano intorno, in un clima di caccia alle streghe. I toni sono forti, le parole pesanti e taglienti come spade. Più volte si rischia di venire alle mani in Transatlantico. Negli occhi e nel linguaggio non verbale degli colleghi onorevoli e senatori si cerca di intuire l’atteggiamento, la convinzione, l’idea.
Si vuole ora il voto palese per capire CHI tradisce, chi vota in dissenso con le indicazioni, chi non segue la linea tracciata dai dirigenti. La Lega si spacca, Maroni prevale su Bossi, Castelli già da ieri ha annunciato, dai microfoni di Radio24, che non vuole si spendano più soldi per la missione in Libia, i detrattori di Berlusconi (ma membri del PdL) hanno prevalso sul leader e sono proprio i loro voti a salvare Tedesco al Senato, laddove lo stesso Senatore ha chiesto di votare per l’arresto (quasi ironicamente, visto che aveva in tasca il risultato, ma si sa, in politica conta anche il gesto).
Una cosa è condivisibile: la certezza che il carcere preventivo debba essere riservato solo ai reati più gravi e salvaguardando gli unici tre casi in cui un magistrato lo ordina, sospettando che sussista una o più condizioni tra le tre previste (reiterazione, fuga del sospettato, inquinamento delle prove). Personalmente, non ritengo sussistesse alcuna di queste condizioni per l’onorevole Papa, così come per il senatore Tedesco, ma tant’è: uniti nel trattamento e divisi nel risultato. Come dicevo, non siamo tutti uguali, ma i ricorsi storici spesso ci azzeccano: era il 1994 e il governo Berlusconi cadde, tradito dalla Lega che si sfilò progressivamente e inesorabilmente. Vuoi vedere che Vico aveva ragione?

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