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Il potere del colore, intervista a Veronica Montanino

di Eleonora Quadrana e Mario Masi
Il mondo moderno viaggia veloce e immediato. Le informazioni e i concetti vengono proposti con tanta insistenza, che pur percependoli non riusciamo a prestargli attenzione. Ma se l’arte è un universo parallelo, dove il silenzio, la riflessione e lo stupore hanno ancora posto, Veronica Montanino con la sua esposizione galleria Dorothy Circus a Roma ottiene proprio questo! Le sue opere colme di figure, simboli e colori costringono quasi colui che le osserva a soffermarsi per percepirne ogni elemento, cercando un significato proprio e originale che oltrepassi l’utile e il quotidiano. E’ la rivincita del colore sull’arte platonica corruttrice delle menti degli uomini irrazionali, preda delle passioni. Il remix emozionale della Montanino attinge dall’arte e dalla natura, Mutatis mutandis, alle ricerca di ciò che è comune a questi due mondi.
La tua pittura è un una stratificazione di colori, rincorrersi di macchie, figure che giocano a nascondino, un remix psichedelico. Quanto di te c’è e cosa vorresti che arrivasse a chi guarda?
Io penso che l’opera di ogni artista sia un autoritratto. In fondo quello che si mostra è il proprio modo di guardare il mondo e i propri pensieri. Louise Bourgeois diceva che si tratta di un autoritratto spesso non cosciente, che, per questo, può dare luogo a un grande imbarazzo per l’artista, quando si accorge di aver rivelato troppo di se stesso. D’altra parte è anche ovvio che sia così, a meno che non si voglia credere ad una creatività che, come lo spirito santo, cala da chissà dove. Insomma non è possibile pensare si possa raccontare ‘altro’ senza passare dal sé. Dentro ai miei lavori c’è tutto quello che mi piace e che ha  stimolato la mia immaginazione, c’è tutto ciò a cui ho guardato e che continuo a guardare, c’è la mia storia, la mia ossessività, la maniacalità per i dettagli, l’horror vacui e altro… Essendo poi un lavoro sviluppato a livelli, a strati, come hai detto bene, ogni elemento è presente nella stratificazione ed è lì a dar mostra di sé, per chi lo voglia e lo sappia leggere. Ma poi non è mai l’artista nellfoto 2a sua dimensione personale che qualcuno ha interesse a guardare, com’è ovvio. Se anche penso alle performance di Marina Abramovic e Ulay, in cui c’era il massimo dello sconfinamento tra arte e vita, ciò che gli spettatori guardavano era comunque una rappresentazione del rapporto tra diversi, un lavoro sulla complessità dell’eterosessualità, al di là della vicenda biografica che pure faceva parte del lavoro. È solo quando nella propria ricerca, e attraverso il proprio vissuto, si riesce ad afferrare e restituire qualcosa di universale, e dunque condivisibile, che gli altri trovano un interesse a guardare davvero. E quello che vedono dipende dalla loro propria ricettività, dalla loro fantasia, dal loro vissuto. Nei miei lavori non fornisco alcuna indicazione né su dove né su cosa guardare. La mancanza di centralità dell’immagine, la moltiplicazione dei soggetti e il loro frantumarsi in dettagli, la negazione di un unico oggetto della visione, obbligano chi sta di fronte a scegliere dove e cosa guardare. Un po’ come giocare a ‘aguzza la vista’, notando delle cose piuttosto che altre, a seconda del proprio spirito di osservazione, della propria pazienza, curiosità ecc.  E magari c’è anche chi sceglie di non guardare, liquidando quel tutto caotico come troppo pieno, troppo colorato, troppo kitsch…perché per approcciare i miei lavori bisogna innanzitutto avere voglia di addentrarsi, fare nessi e cercare. Anche a rischio di perdersi.
Che tecnica usi e che significato ha per te il colore?
La tecnica che uso è mista. Utilizzo spray e poi lacche acriliche, pennarelli, matite, ritagli di pvc, oggetti. Lavoro a strati e molto del lavoro pittorico è svolto in orizzontale, perché gli acrilici vengono colati a gocce. Alcune cose le realizzo con una manualità controllata, altre invece rispecchiano l’immediatezza di una gestualità più libera e veloce. Mi interessa fondere questi due registri, proprio per includere le contraddizioni all’interno dell’immagine: lucido e opaco, brillante e polveroso, astratto e figurativo. Tutti insieme lavorano alla complessità dell’immagine. Nei lavori ambientali realizzati site specific, che sono diciamo la dimensione che prediligo, sono costretta ad adattarmi alle caratteristiche dello spazio. Ed è interessante questo, perché è sempre dagli ostacoli e dalle difficoltà che vengono idee nuove, idee che poi trasferisco dalle dimensioni ambiente alle dimensioni quadro. Lavoro anche con gli oggetti quando faccio installazioni e assemblaggi, tanto per far saltare anche la distinzione tra bidimensionalità e tridimensionalità. E le opere tridimensionali le tratto nello stesso modo, aggiungendo a strati oggetti su oggetti. Difficilmente lavoro con un progetto dettagliato o con una immagine predefinita di quello che andrò a realizzare, perché ritengo sia fondamentale avere meno controllo possibile sulle proprie idee. È importante che queste emergano dal lavoro stesso, è un metodo che nasce dalla convinzione che quando aumenta il controllo diminuisce la fantasia. Il potere psichedelico del colore è l’altro elemento che utilizzo per “stordire” un pò lo spettatore e trascinarlo all’interno dell’immagine. Io credo che la dimensione del colore, in una parte dell’Occidente, non si sia mai riavuta dalla condanna platonica che lo bolla come falso, ingannevole, volgare. Ovviamente dietro questa svalutazione senza appello c’è la pretesa supremazia, accolta da tutta la tradizione razionalista, del mondo intellegibile rispetto a quello sensibile. Tutto ciò che coinvolge emotivamente, così come il colore che colpisce violentemente i sensi, disturba o addirittura minaccia la fredda lucidità della logica razionale. Tutti sappiamo che l’arte non si avvale degli stessi criteri che sono alla base del pensiero utilitarista e funzionale. Perciò per me, in queste senso, il colore, bistrattato e bollato da questa tradizione filosofica come decorativo con un’accezione dispregiativa, ha un potere sovversivo .
665532_510957882261585_1776092734_oChe ruolo può avere l’arte ai giorni nostri?
Ciò che l’arte fa è immaginare ‘altro’ rispetto al reale dandogli la consistenza e il corpo della realtà stessa. Immaginare un mondo che non c’è vuol dire andare oltre lo status quo, il conformismo, il fatto che tutto sia scontato, ineluttabile, e quando lo si rende materialmente visibile, come fanno gli artisti, si offre la possibilità agli altri di partecipare a questa immaginazione. Per questo l’arte mi sembra l’unica utopia in grado di navigare in qualsiasi acqua, anche in quelle burrascose dei nostri giorni, visto il palese fallimento del nostro sistema. Credo che oggi più che mai l’arte debba recuperare la sua funzione sociale, pubblica, e anche politica, senza con questo voler dire che l’arte deve avere come soggetto l’argomento politico o problematiche sociali. Ma l’arte, pur restando se stessa, ovvero un gigantesco caleidoscopico ventaglio di ricerche tra le più disparate, può e deve partecipare a rappresentare un’alternativa alla società globalizzata. E può farlo perché è lei stessa, l’arte, un’alternativa che mostra come la libertà, quella dell’artista che rifiuta il linguaggio imparato per utilizzarne uno proprio, possa essere una identità praticabile. In questo senso ha una valenza anche fortemente politica. E’  per questo che ho partecipato con grande entusiasmo, insieme a molti altri artisti, a un progetto visionario come quello del MAAM (il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia) nell’estrema periferia est di Roma. Questa realtà, nata come un’esperimento antropologico e cresciuta fino a diventare un fenomeno, ci può dire molto sul ruolo che l’arte stessa oggi sente il bisogno di avere e di ricavarsi.

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