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Diario di Bordo di una Scrittrice Emergente – Il Laboratorio di Scrittura Rai Eri

Dodicesima e ultima puntata: alla ricerca del punto Z. Ovvero, come vivere tutti felici e contenti
Di Kristine Maria Rapino

Cenerentola è una gatta morta.
E come tutte le gatte morte, ha sposato il principe azzurro. Quello che pochi sanno, però, è quanto avvenuto esattamente dopo l’ultima pagina patinata. Quando lui ha tirato fuori il telecomando, riposto la spada laser e invitato a casa i compagnucci di corte per ubriacarsi sul divano, prima di darsi a inquietanti flatulenze sotto le lenzuola di pizzo sangallo. E quelle pillolette che tiene sul comodino, no, non sono vitamine. Quindi, tranquilli, donne taglia 46 e uomini con girovita esuberante. Giustizia – almeno nelle favole, è fatta.
checklist-successo-finale-libroIl finale di un racconto o di un romanzo è il definitivo colpo di mannaia sul testo. Ci fa decretare il nostro giudizio, raramente rinegoziabile. Una cosa è certa: quel ‘vissero felici e contenti’ sta sul groppone un po’ a tutti. Procura uno strano prurito retronasale sapere che a qualcuno può essere andata meglio di noi. Eppure, le frustrazioni del lettore meritano una dignitosa rivalsa, almeno letteraria. Quindi, anche il più feroce denigratore dell’Harmony Pride apprezzerà il lieto fine, quando necessario. Altre volte, invece, si farebbero carte false pur di far morire Misery, selezionando per lei la più atroce delle torture. Perché diciamolo, ci è cascata antipatica fin dalla prima pagina – quando ha ammesso di tifare Manchester United.
I lettori si dividono tra feroci assassini e procacciatori di finali ammiccanti alla Hugh Grant. Ma, rullo di tamburi, non sono loro a decidere. Per quanto sia necessario assecondare le aspettative del lettore, è la storia stessa ad avere l’ultima parola. Perfino lo scrittore è alle dipendenze della sua creazione. Il finale non si inventa, non si costruisce. Viene alla luce. Non è un’opera di découpage. È un arazzo. Un ricamo, fatto con lana di diversi colori, che acquista un senso solo se guardato alla fine, e da lontano.
La narrazione deve raggiungere l’acme: il punto Z. Scoprire dove si trova può essere molto appagante. Ti aiuterà lui, il tuo personaggio. Sarà l’ultima cosa che farà per te. Butta un occhio nell’altra stanza. Ha già preparato la valigia. Proprio ora che ti eri affezionato alle sue piccole manie domestiche, alla salsa ketchup disseminata per casa, al bigattino di dentifricio lasciato a essiccare nel lavandino, alla soffice peluria di muffa sugli avanzi della sera prima, lui se ne va. È indipendente, ormai. Eppure, dentro di te hai la consapevolezza che tornerà. Perché si è portato via la volpe e la strega, ma ha lasciato a te l’armadio, punto di passaggio tra il tuo mondo e il suo. E guarda bene: l’anta è aperta…
Ci siamo. È la dodicesima lezione del Laboratorio di Scrittura Rai Eri. Ultimo round.
Proprio all’inizio del nostro percorso, abbiamo parlato di incipit. È il DNA che da’ le premesse del racconto e apre la porta su una dimensione temporale. Una volta costruito un incipit efficace, bisogna proseguire con una narrazione che abbia un ritmo ascensionale, punti di snodo e momenti di maggiore tensione. Se mancano, il testo risulterà privo di una linea evolutiva. In altre parole, non riuscirà a coinvolgere il lettore. La grande abilità del narratore sta proprio nel ritmo. L’azione incalzante conduce al climax, il quale indirizza verso la clausola finale, il momento in cui si rivela qualcosa che all’inizio non era prevedibile.
La narrazione deve andare dal punto A, l’incipit, al punto Z, l’approfondimento di senso. Se un romanzo lascia un senso d’incompiutezza è perché non ha premuto l’acceleratore in fase finale. La narrazione è un crescendo. Una legge fisiologica, non una regola. Esiste un momento, prima della fine, in cui tutto converge verso un punto e le problematiche affrontate raggiungono maggiore intensità. È il climax. Da quel punto in poi, non può avvenire nient’altro che quello che seguirà. Il finale, dunque, rafforza il climax. Lo definisce, lo chiarisce.
SCRITTURADal punto di vista tecnico, esistono vari tipi di finale: finale circolare, finale a schema aperto, finale a sorpresa.
Nel finale circolare si ritorna al punto di partenza
. ‘I Promessi Sposi’ ne sono un esempio. Il finale a schema aperto, invece, lascia aperto un interrogativo, un dubbio. Non chiude i fili della storia, anche se il senso è comunque concluso. Un buon finale «indica delle possibilità situate al di là dei confini della storia che hai appena raccontato», suggerisce il romanziere Rick Moody. Il finale in cui tutto sta perfettamente al suo posto, «i fili della trama si chiudono e niente rimane in sospeso», come si esprime Aleksandar Hemon, è poco gradito. Il finale a sorpresa è quello che capovolge le aspettative. Pensiamo a un racconto scritto dal punto di vista di un gatto. Rivelarlo soltanto alla fine, può dare maggiore forza alla narrazione. Tuttavia, il finale a sorpresa è difficile da ottenere con efficacia. Se non è veramente imprevedibile, rischia di essere banale. Regge soltanto se hai giocato sull’equivoco. La formula più comune è il risveglio da un sogno. Una soluzione scarna, esile. Commenta Salas: «Perché inventare che il personaggio si sveglia e capisce che è tutto un sogno, se nella letteratura hai la possibilità di far credere vera qualsiasi cosa?». Il colpo di scena non è indispensabile. Detto ciò, anche i racconti molto brevi devono avere un piccolo guizzo finale, una revolverata. Queste tre diverse formulazioni di finale non sono applicabili come meccanismi, ma devono essere sempre funzionali alla narrazione.
I bei finali si ricordano. Senza quel finale il racconto, o il romanzo, avrebbe un senso d’incompiutezza. Non occorre ingegnarsi per trovarlo. Al contrario, nasce spontaneamente in seguito al percorso di chiarificazione di senso. Un buon finale è sempre conseguenza di un buon racconto. Aggiunge la responsabile del corso, Paola Gaglianone: «un finale non deve mai essere giustapposto. Non interviene mai come un fatto esterno al racconto. Deve essere l’estratto di quel racconto, la conseguenza».
Per scrivere una buona conclusione, devi rivedere il senso del racconto ed eliminare il superfluo. Ogni situazione narrativa avrà un finale in linea con lo stile. Un buon finale deve tirare tanti fili, su diversi piani. Succede qualcosa che chiude il senso di tutto, sia in senso fisico, sia in senso simbolico.
scrivere-finale-di-un-libroQuando il tuo racconto è veramente finito? Non è semplice capirlo. È quanto ti fa notare un buon editor in fase di lettura e revisione. Ogni racconto ha la sua giusta misura, che va scoperta. Aggiunge Alessandro Salas, co-docente del Laboratorio: «I racconti hanno un respiro. Ti accorgi che finiscono esattamente quando dovrebbero finire. Si potrebbe aggiungere una frase, ma sarebbe superflua. Se togli quella frase, invece, il racconto sarebbe zoppo. Va sviluppata una “sensibilità ai finali”. È questione di orecchio. Tante volte non è necessario neanche pensarci su». Amy Tan, scrittrice statunitense, capisce di essere arrivata alla fine quando sente «di cosa parlava il libro. Ogni libro ha un ritmo, e proprio alla fine c’è una svolta, una cosa imprevedibile e al tempo stesso inevitabile. L’ultimo paragrafo, in particolare, è decisivo». Il peruviano Santiago Roncagliolo, al riguardo, dice: «dovrebbe risultare imprevedibile e dare senso a tutto ciò che c’è stato prima. Dovrebbe darti la sensazione che i personaggi sono arrivati alla fine di un viaggio e tu insieme a loro».
Si può dare una regola per il buon finale? Forse sì, una. Interrogarsi, rileggendo il racconto, sulla domanda fondamentale: con questo racconto che cosa volevo dire? I racconti non sono altro che dimostrazioni narrative di una verità. È per cercarla che scrivi, per conoscere un aspetto dell’esistenza. Aggiunge la Gaglianone: «La scrittura è catartica. Ti libera da una serie di questioni insolute che ti portavi dentro e che lì decantano, perché trovano una loro soluzione. Si scrive per rimettere in ordine alcune sensazioni». Il finale, dunque, è la risposta a un interrogativo iniziale. «Credo che la trama di un romanzo sia in realtà una domanda. Quando hai risposto a quella domanda o hai dimostrato in modo convincente che una risposta non c’è, allora hai finito», scrive Tayari Jones.
Come ti avvicini alla fine di un libro? Stephen King risponde semplicemente: «Con gratitudine». E la risposta ci convince. I docenti del Laboratorio Rai Eri, avvicinandosi con altrettanta riconoscenza al termine del corso, ci lasciano un ultimo consiglio: osate, scrivendo. Significa non mantenersi mai dentro i confini. Prendere posizioni nette, quali che siano. Se ti porti dentro una verità che sei in grado di dimostrare, osa.
Scrittura_creativaA conclusione delle dodici puntate del Diario di Bordo di una Scrittrice Emergente, appuntamento settimanale che dal mese di ottobre a oggi ha visto Itali@magazine spendersi attivamente nella difesa dell’esordiente, ecco la voce degli altri. Emergenti, esordienti, scrittori per passione. Ottocentocinquanta domande pervenute, settanta i corsisti del Laboratorio. Molti i caduti e i dispersi sul campo. Eccoli. Non vogliamo lasciarli anonimi. Perché hanno un nome, un cognome e tante bollette da pagare. Tutti insieme abbiamo dato vita a un attivo circolo di penne e piume. Finisce il Laboratorio “Rai Eri”. Comincia “Rai Sarai”.
Ad alcuni di loro, una domanda: cosa ti ha lasciato questo corso?
Alessandra Capone – «Pagine bianche da scrivere e voglia di mettermi in gioco».
Francesca Piscioneri – «Una bella esperienza di vita. Paolo Di Paolo ha dato il consiglio più importante: essere insostituibili. Non vale solo nel mondo della scrittura. Non è semplicemente ricercare il proprio stile, il proprio personaggio. Vale anche nella vita».
Giovanni Vergineo – «Tanti nuovi amici. Conoscere gente è fondamentale, perché poi puoi sfruttare le loro storie, rubarle biecamente e farle diventare le tue storie».
Valeria Nucera – «Nuove consapevolezze».
Ludovica Lops«Il fatto di conoscere tante persone, con le quali si è sviluppato un rapporto anche fuori. Hai l’opportunità di stare tre ore con persone che hanno il tuo stesso interesse, cosa che difficilmente capita altrove. Poi, oggettivamente, io scrivo come scrivevo prima, ma adesso sono più consapevole. E magari qualcosa in più l’ho capita. Quindi, consapevolezza».
Giada Giordano – «Innanzitutto ho potuto conoscere delle persone che condividono con me la stessa passione, gruppi anche abbastanza eterogenei. Amo il fatto che si è potuta creare una sorta di squadra, di team, che continuerà probabilmente anche al di là di questa esperienza. In ogni caso, è il mio mondo e mi ci sono ritrovata benissimo. Mi ha dato modo di verificare quali possono essere i miei limiti, per non sentirsi “arrivati” e lavorare continuamente su se stessi».
Cinzia Colantoni – «L’ho trovato una buona palestra, perché mi ha dato la possibilità di esercitarmi su cose che non mi sarebbero mai venute in mente. È stato interessante, stimolante. Mi ha suscitato anche la curiosità di mettermi ancora alla prova nonostante il corso sia finito. Ho conosciuto tanta bella gente che spero di continuare a sentire. Lo consiglierei assolutamente».
Elvira Alfonsi – «La consapevolezza che c’è gente interessante dappertutto e che basta veramente poco per avere dei riscontri. Imparare è sempre eterno. Non si finisce mai. Anche la cosa più banale che può essere leggere una pagina, vista con altri occhi, la vivi in un’altra maniera. E poi la tranquillità, perché so che le persone che conosco in realtà non si perdono. Un bagaglio in più che mi piace e che mi porto dietro».
Massimo Silla – «Gli strumenti per proseguire a scrivere, strumenti che prima non possedevo. Mi piace scrivere, ma l’ho sempre fatto come passatempo. Adesso magari lo farò come passatempo, ma con più costrutto, perché so come farlo».
scrittori-precariIlaria Rocchi – «Sono estremamente meravigliata da quello che è uscito fuori, da questi pochissimi e brevissimi tre mesi. Meravigliata da quello che è uscito fuori da Ilaria. È una valanga di parole con un ordine. Io ho iniziato questo corso, e la mia presentazione si chiamava ‘Pazza di parole’. Confermo e sottoscrivo».
Alessandro Schintu – «La voglia di scrivere. Scriverò un romanzo, forse».
Eugenia Belvedere – «Sono una giornalista. Mi occupo di cronaca giudiziaria e cronaca nera. Il corso mi ha lasciato le amicizie, che sono importanti perché è gente che è accomunata dalla mia stessa passione. E speriamo che da cosa nasca cosa, per provare questa nuova avventura nella narrativa».
Gabriele Gianni – «Questo corso mi ha lasciato la contentezza di aver fatto qualcosa di creativo al livello di una comunità. Perché all’università non capita mai. Questo è bello. Qualcuno che ti valuta, che ti ascolta».
Martina Licata«Mi ha aiutato a rispondere alla domanda ‘Perché amo scrivere’, che era quella introduttiva del corso. Inizialmente non sapevo dargli una risposta, anche se poi questa domanda mi ha portato fortuna, perché sono stata presa per il corso. E invece adesso so perché amo scrivere e sono più consapevole di quello che è la scrittura».
Alberto Tristano – «Sicuramente una gran voglia di leggermi ‘I Promessi Sposi’ in versione integrale. Con sottotitoli del Crispi. E poi, ho conosciuto tante belle persone, sono molto felice e spero nella pace nel mondo».
E lo chiediamo anche a Margherita Pallottino, corsista del Laboratorio di Scrittura Rai Eri nella sua seconda edizione – «Il corso mi ha lasciato la percezione che la scrittura rientra nell’abito delle tecniche, non solo dell’arte, e che quindi ci sono dei canoni che si possono rispettare. Anche delle strategie, delle accortezze che applicandole, ci permettono di vedere dei risultati. E poi mi ha lasciato il senso dell’entusiasmo di poter condividere un’attività che ho sempre ritenuto personale, individuale. Perché la scrittura è sempre un’attività solitaria. Però, vedere che ci sono altre persone che nella loro solitudine si applicano allo stesso modo è galvanizzante e rafforza la consapevolezza di fare qualcosa di utile collettivamente, a prescindere dal prodotto».
Qualche curioso, forse potrebbe chiedere: e a te, questo corso cosa ha lasciato?
Ho cominciato a capirlo quando Cenerentola mi ha rubato la scarpetta. Quindi ho deposto i tacchi, indossato scarpe da running e corso dietro a un sogno che da zucca è diventato carrozza. O mozzarella in carrozza. Questo è ancora tutto da scoprire.

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