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#raccontinvetrina: Ritratto di signora

Mi chiamo Giuseppina Esposito. Per tutti sono Peppina. Ho letto sulla rivista del vostro angolo letterario. Non mi sono mai concessa colpi di testa. Considero queste cartelle che vi invio il primo, in una intera vita fatta esclusivamente di gesti ragionevoli, necessari e dignitosi. Non sono una scrittrice, non sono più giovane, non aspiro a diventare famosa. Non ho altri racconti eccetto il mio “Ritratto di signora”.  Ve lo invio con la speranza che possa essere utile a qualcuno.
Sono una signora di sessantuno anni, non di quelle belle, brune, con i capelli sempre a posto e le unghie curate, che hanno realizzato nella loro esistenza la maggior parte delle cose che si erano proposte da giovani. Il colore castano dei miei capelli, tagliati in un caschetto facile da gestire, è frutto delle tinture che mi ingegno a fare in casa io per coprire quelli bianchi. Le unghie sono verniciate con una sola e sbrigativa passata di smalto trasparente, anche quella opera mia.
Sono alta poco più di un metro e mezzo. Posseggo il fisico ordinario di chi non si è mai potuta concedere nulla di più delle creme anticellulite dei grandi magazzini. Delle diete fai da te -che si risolvono in digiuni- suggerite nelle riviste femminili. Di lunghe camminate sotto il peso delle buste della spesa a sostituire la palestra che, per questione di soldi, non mi posso permettere. Il mio aspetto è quello ordinato e composto della madre di famiglia attenta alle apparenze.
Fingo una “finezza” che non posseggo per nascita e spero che l’occhio altrui non colga la fatica di comporre, girando tra i banchi del mercato, un abbigliamento distinto e decoroso, versione economica di quella idea di lusso rubata alle vetrine dei ricchi. Mio padre era un artigiano. Mia mamma una donna volitiva e a suo modo ambiziosa. Voleva fornire alla figlia, oltre alla dote classica di masserizie e biancheria, anche un titolo di studio che ne accrescessero il valore, rendendola un partito migliore delle altre concorrenti agli occhi di eventuali candidati al matrimonio.
Mi fecero studiare da segretaria alla scuola professionale. Non erano grandi studi, ma quella uscita di casa, negli anni ‘60, rappresentava una rivoluzione per una ragazza nella mia condizione sociale. Anche il passo seguente fu estremamente moderno: al termine dei tre anni pretesi di lavorare. Me lo concessero a condizioni che erano tutte sbagliate e inammissibili, ma che io accettai. Acconsentii che fosse un impiego “part time” -come si dice oggi- in un luogo vicino casa, dove le colleghe fossero tutte donne e soprattutto che l’avventura si concludesse alla vigilia del matrimonio. Per me non finire in un laboratorio di sartoria o tra apprendiste ricamatrici -il destino di tutte le mie coetanee- era comunque una conquista e non mi opposi. Perché dovrebbe interessarvi il mio ritratto monocromatico e piatto, privo di talento artistico, scialbo e usuale? Perché le soffitte sono piene di tele dove il volto della sofferenza ha le sembianze moderate e disciplinate della normalità: è forse giunto il momento che questi visi vengano alla luce.
Il buon partito arrivò, come sperava mamma. La differenza di età che c’era tra noi non mi impedì di innamorarmi di lui. Era bello, distinto, aveva modi compiti e mi corteggiava rispettosamente.
Gestiva insieme alla madre una merceria. Ne rimanemmo entrambe affascinate, mia mamma ed io. Nel turbinio emozionale dei 17 anni regalai senza riserve il mio cuore, carico dei sogni e delle ambizioni di ragazza moderna, a quel giovanotto. Lo stesso fece mia madre, che aprì il suo, senza che alcun dubbio la sfiorasse, per accogliere l’incarnazione dei suoi desideri: un bravo marito per la figlia, benestante e di buona famiglia. L’unico che colse gli indizi della brutalità, tenuta a bada con maestria dietro l’apparenza pacata e bonaria, fu il mio papà, nella sua mitezza. Mio padre, orfano di madre dalla nascita, a cui dunque nessuno aveva insegnato il dogma della superiorità maschile e che quindi si era affidato -non da debole, bensì da pari- alla moglie, colse la rozzezza del mio futuro marito, tanto da propormi, mentre attraversavamo insieme la navata verso l’altare, di ritornarmene a casa.
Il ritratto che vi porgo è un puzzle composto da un numero incalcolabile di bugie. Invenzioni a cui sono ricorsa per costruire la facciata di una vita rispettabile. Menzogna il ripetere che mi bastasse essere “solo sangue prestato” allo scopo di dare a mio marito dei figli con cui perpetuare il cognome di famiglia. Menzogna l’accettarne i rimproveri e sopportarne gli insulti considerandoli meritati. Menzogna il ritenere che i soldi contati al centesimo che lui mi passava fossero sufficienti, mentre lottavo per far quadrare i conti. Menzogna il convincermi che fossi felice insieme ai miei bambini mentre ogni giorno sognavo di essere altrove. Menzogna, infine, il negare che desiderassi ascoltare parole d’amore mentre lui mi parlava nell’unica lingua di cui fosse pratico, fatta delle mani pesanti e dure con cui mi schiaffeggiava il viso, l’orgoglio, l’animo.
Ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla morte, causata da un infarto che lo stecchì sul colpo lasciandogli una metà del corpo cupa e livida, quasi che la sua anima cattiva si fosse finalmente palesata, io mi ostino a fingere di essere stata felice con lui, di essere stata una moglie come le altre, di essere stata una donna, come le altre.
di Antonietta Molvetti
 
 
 

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