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Bilbao chiama Italia(Magazine)…e non solo

di Roberta Leomporra
Il Museo Guggenheim di Bilbao ha voluto celebrare il proprio XV anniversario riunendo attorno a sè bloggers e redattori giunti per l’occasione da Francia, Spagna e diverse regioni d’Italia. Itali@Magazine c’era.
L’intera esperienza ha goduto di un’organizzazione ineccepibile, che non ha tralasciato la cura di alcun dettaglio, dal viaggio al soggiorno, fino alla visita guidata con possibilità di scelta linguistica tra l’inglese e lo spagnolo. Tre giorni non son stati sufficienti ad assaggiare la lingua Euskera, il più antico idioma europeo ad oggi perfettamente fruito nei Paesi Baschi.
Se l’accoglienza riservatami dalle condizioni meteorologiche bilbaine è stata quantomeno minacciosa, lasciato il bus che mi ha condotta dall’avanguardistico aeoroporto di Santiago Calatrava (lo stesso progettista dell’italianissimo Nuovo Ponte della Costituzione a Venezia, per intenderci), ha fatto irruzione nel mio campo visivo uno spettacolo disarmante.
Bilbao simmetricamente divisa dal “Zubizuri (o Puente Blanco)” tra edifici modernissimi e quartieri antichi racchiusi nel “Casco Viejo“.
Nel mezzo, la magnificenza metallica del Museo Guggenheim.
Eppure dopo giorni incollata a sue foto grondante stupore, credevo d’esser preparata ad incontrarlo.
Impossibile. Avete presente la Sindrome di Stendhal? Ebbene: se dopo ore di concitazione tra bus ed aerei non ho resistito al desiderio di fotografarlo sotto la pioggia, credo di poter dire d’esserne stata vittima.
Sabato 27 Ottobre, ore 10.30.
Ancora rapita dall’impatto con la città del giorno precedente, ho avuto un fremito quando le porte del lucente mastodonte che è il Museo Guggenheim si sono schiuse al passaggio dei nostri ombrelli.
Prodotto dell’ingegno del canadese Frank Gehry, il Museo Guggenheim di Bilbao ha smentito ogni obiezione e critica pervenute al suo impegnativo progetto, ricevendo nel 1998, un anno dopo la sua inaugurazione, il prestigioso premio “Puente Alcantara“, alla presenza di numerosi artisti di spicco quali ad esempio Claes Oldenburg, di cui in questi giorni la struttura ospita una mostra senza precedenti.
Se al primo sguardo l’edificio spicca per lucentezza e dimensioni rispetto allo skyline urbano, ad un’osservazione più attenta lo si scopre avere forma di nave, in omaggio al carattere portuale che, sorgendo ai margini de “La Ria“, la città di Bilbao possiede. Le lastre di titanio scelte dal team di Gehry, ricordano anche per la disposizione le squame di un pesce. Il culmine del pendant con la città viene però raggiunto osservando la struttura dall’interno: le pareti del museo sono state rivestite in pietra calcarea proveniente da Granada, in modo tale da avere un perfetto accordo cromatico con l’Università cittadina antistante, la cui facciata venne realizzata nel 1886 con il medesimo materiale.
Tale visione è possibile attraverso l’inserimento di pareti trasparenti realizzate con l’utilizzo di duemilacinquecento lastre di cristallo doppio: dall’intreccio geometrico di superfici marmoree, vitree e mai piane, siamo passati alla sinuosità delle installazioni permanenti del maestro del sinolo  spazio- materia nel tempo Richard Serra.
Aperta al pubblico nel giugno 2005 ospita sette nuove opere che sono andate ad aggiungersi alla precedente “Snake”. I 130 metri sui quali si estende la mostra, le sono valsi la definizione di “maggiore opera odierna di sculture su commissione destinate ad un dato sito”.
Intitolata “The matter of time”, la maxi opera cattura immediatamente il visitatore nel proprio circolo involutivo, attraverso le curve delle tre spirali elaborate in diversi gradi di inclinazione, “Single Torqued“, “Ellipse” e “Double Torqued Ellipse“, per chiudersi nelle convessità di “Snake“. Si tratta di una sorta di meta- museo, la cui sponsorizzazione si deve al colosso dell’acciaio “ArcelorMittal“, a cui la sala è stata in omaggio intitolata.

La nervosa snodatezza cromatica di Egon Schiele.
Immaginate ora che un elevatore dalle pareti trasparenti vi trasporti dal decostruttivismo di Gehry all’Espressionismo dell’arte figurativa di Egon Schiele.
Fruibile dal 2 Ottobre 2012 al 6 Gennaio 2013, la mostra che ospita opere provenienti dall’Albertina Museum di Vienna.
Ad avvolgere in un alone di mistero l’attività di Egon Leon Adolf Schiele, è tra l’altro, l’esorbitante volume di opere realizzate in un’esistenza brevissima. Muore infatti all’età di ventotto anni, affetto dalla stessa febbre spagnola che tre giorni prima aveva causato il decesso di sua moglie Edith Harms, al sesto mese di gravidanza.
Quest’ultima, compagna e musa autoritaria al punto da proibire all’artista di averne altre, compare in molti dei dipinti di donna eseguiti da Schiele che non cessa di ritrarla neppure quando l’agonia ne aveva sbiadito i colori. Forse anche perchè l’uso cromatico cui Egon Schiele fa ricorso spesso trascende la realtà, a volte la supera.
Il pallore di volti cipria contrastato dall’intensità di labbra di un rosso sanguigno, di corpi avvolti da abiti ancora purpurei, presuntuosi sulla scena. Donne rappresentate di continuo in pose ora di una plasticità ridicola ed inverosimile, ora in posizione verticale, così da risultare collocate in un piano spaziale non delineabile.
L’osservazione per il nudo che dall’Art Nouveau era connotata dalla raffinatezza, si fa nell’artista austriaco delimitata in tratti di scura virulenza. Nudi arsi, dal sapore mordace nel rifiuto delle morbide proporzioni classiche, imposte dall’Accademia, che Schiele abbandona in quanto ambiente costrittivo ed arido, ritenendo “l’artista debba necessariamente essere se stesso, deve essere un creatore, deve saper creare i propri fondamenti artistici, senza utilizzare tutto il patrimonio del passato e della tradizione”.
Si ispira a nudi sopratutto femminili, osservati dal vivo come il corpo della sorella Gerty, di cui può osservare la progressiva maturazione. Attinge ai quartieri popolari i tratti infantili che pure occupano ruolo di rilievo nell’opera dell’espressionista austriaco.
E’ dal fotografo Otto Schmidt nonchè dal Dr.Jean- Martin Charcot che trae immagini erotiche e foto di donne affette da psicosi di vario tipo. Le traspone su tela con tratti bruni spesso in contrasto su sfondo ocra.
Donne calde, seducenti, di un fascino spesso racchiuso in elementi fisici diretti, come organi genitali in primo piano, dita affusolate in pose feline, purpuree labbra socchiuse in atteggiamento volitivo.
La prematura scomparsa del padre a cui si aggiunge il logoramento del rapporto con la madre Marie sono probabilmente la scaturigine di raffigurazioni di coppie unite in abbracci senza amore, come ritrovatesi dopo il timore d’essersi perdute (ad esempio “Jealousy, Lovers” 1911).
Le sue donne dense d’una vanità in attesa, quasi ad osservare l’effetto che la loro procace nudità può avere sull’osservatore.
Accanto alla ferina violenza figurativa, compare un gran numero di autoritratti, in cui Schiele assume espressioni caricaturali e bizzarre.
Al pari di Oskar Kokoschka, lo spazio assurge a vuoto simboleggiante la condizione di inermità dell’uomo, sospeso inesorabilmente tra morte e vita.
Condivide con l’amico e collega Gustav Klimt, la cui influenza incide anche emotivamente su Egon Schiele, l’interesse per il corpo umano. Ma alla raffinatezza del connazionale, contrappone l’uso di colori intensi in cerulei ocra, di tratti volti alla negazione dell’estetica tradizionale, in un iter tra i complessi malinconici meandri dell’inconscio umano, un’introspezione psicologica spinta ad una profondità tale da non esser probabilmente mai stata raggiunta prima nell’arte figurativa.
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2 COMMENTI

  1. Leggendo questo articolo ti prende un’insana ed incontenibile voglia di saltare sul primo aereo per Bilbao per godere dal vivo di questi capolavori!

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