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Alda Merini e la sua croce: al Museo della Mente la poesia dei 'folli' diventa esperienza empirica

di Martina Peloso
Visitare un ex manicomio, un antico luogo di dolore, significa sentire stillare le pareti di un’emozione straziata, quella fondamentale profondissima umanità che ogni essere estrinseca in situazioni di atroce stress.
L’intento dell’Assessore alla cultura Marco Della Porta, divenuto immediatamente mio e interiorizzato anche dal mio collega conferenziere, l’editore Niccolò Carosi, è quello di riavvicinare i cuori a una poesia nata con le prime ricerche sulla psicologia umana a fine ‘800 e liberata, nel suo inabissarsi progressivo, fino a stadi di perdita di autocontrollo o, se vogliamo, di mania. Il senso di organizzare degli incontri sui “poeti folli” in un’ex sede manicomiale (Santa Maria della Pietà,  Roma), oltre a quello di onorare una struttura museale ricca di insegnamenti sulla nostra storia, è invitare coloro che vi partecipano ad una immedesimazione con alcune voci e vite di letterati che altro non furono che uomini di cultura emarginati e lacerati, in grado per questo di scendere senza inibizioni nelle profondità dell’essere.

Martina Peloso e Marco Della Porta
Martina Peloso e Marco Della Porta

Come non riscoprirci più esposti e più veri nei versi di Alda Merini, che pure continua ad interessare il grande pubblico in parte per le curiosità e le stranezze di cui fu capace, naturali retaggi di una vita vissuta spesso ai margini, ingiustamente e non per sua volontà?
Infatti è forse il caso di ricordare che il concetto di follia è cambiato parzialmente nel tempo e nella letteratura: oggi un “folle” è una persona da emarginare, che incute pena e timore; ai tempi degli antichi greci, invece, la follia aveva  in molti frangenti una funzione “sociale”, tanto che potremmo indagarne gli effetti più in un ambito antropologico che psicologico.
Si pensi al furor guerriero: nell’Iliade e negli antichi poemi l’efferatezza spaventosa sul campo di battaglia testimoniava il valore; parimenti i segni del vero amore erano riscontrabili nella perdita di senno, nello sfasamento, nella mania (la poetessa greca Saffo descrisse in una celebre poesia tutti i sintomi della pazzia amorosa); le baccanti nelle celebrazioni dionisiache e le donne che ai funerali inscenavano estreme manifestazioni di dolore sotto compenso erano espressione di una follia rituale legalizzata; infine, a metà tra il divino e l’umano, c’era l’oracolare di profeti, pizie e poeti, ai quali sacralmente si concedevano fughe dalla realtà per avere in cambio verità e suggestioni. Il poeta-vate, che viveva fuori e dentro la comunità civile, non partecipava alla quotidianità, ma era punto di riferimento sulla vita. Quest’ultima è forse l’unica funzione che tutt’oggi gode di una strana, controversa, forse un po’ ipocrita stima.
Alda Merini ha sempre fatalmente incarnato la figura di sacerdotessa agli occhi di tutti, pur nell’estremo racconto della sua vita incredibile e travagliata, per cui siamo abituati a chiamarla “folle”. Il suo ruolo di sacerdotessa è consistito nello scendere nell’oscuro e nel magmatico dell’umano:  forse questo è un atto di “incoscienza”, ma è anche un permesso che la natura dà a pochi “unti”, i quali, potendo accedere a tali rischiose profondità, fanno per noi da nocchieri nell’inconscio collettivo dei miti (Mia trionfale aperta poesia / che mi scagli dal profondo / perché ti dia le risonanze nuove). E poiché più si scende nell’inconscio e meno l’etica e la morale hanno valore, il giudizio sulla vita della poetessa è sospeso e vale la pena per noi condividere la sua storia.
Il compito di sacerdotessa, per se’, Alda Merini l’ha sempre avuto ben chiaro, come si evince dalle “Due poesie per Q.”: “Parlavamo il linguaggio dei poeti / casto, accorato senza delusioni / o eravamo delusi di noi stessi / poveri, confinati nello spazio / come astronauti sulla stessa luna. […] Oh ci voleva / così poco per te che eri poeta / darmi una ghirlanda d’oro e un soffio puro. / Invece a me porgesti le gomene / e i covoni di marzo e fummo due / arieti spinti dalla stessa fune.” L’investitura a vero poeta comporta altezza e privilegio, ma anche emarginazione, fatica e dolore.
merini martinaLa Merini ha raccontato nella sua poesia di bocconi amari, ma si è svelata anche baccante che ingoia bocconi di carne cruda in preda ad esperienza mistica; come una baccante non s’è mai accorta, o forse semplicemente non è responsabile dei suoi atti folli: “Sono nata il 21 a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta. / Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera.” Da novella Proserpina coniuga le due facce della medaglia, la creatura demoniaca e la fanciulla ingenua : “qui è passata una gemma o una tempesta, / una donna che avida di dire / disse cose notturne e delicate, / una donna che non fu mai amata. // Qui passò forse una furiosa bestia.
Ma questa oscillazione tra la donna che dà la vita e l’accabadòra che porta la morte è ancestrale, e  risiede prima di tutto nella preistoria della nostra coscienza: sono nostri i miti e i mostri, questi opposti laceranti nella vita ma pacificati nella poesia di chi li incarna.
Alda Merini s’è forse percepita a metà tra il vate ispirato e il pazzo emarginato. In lei l’una e l’altra funzione si sono toccate. E poiché i pazzi si emarginano e i poeti ci ispirano, ella nella sua poesia geme e pontifica, vaneggia e profetizza tutt’ora.
Le sofferenze, gli squarci, i tradimenti  che la sua voce racconta sono al macero dell’ingenuità.
Come un bambino supera lo stupro ricomponendosi in un’espressione di un candore più adulto, come una bambina violata introietta l’abuso nell’ambito del normale, così questa poetessa ci ha narrato della sua vita di donna, la cui unica speranza fu forse quella di essere amata da un Dio che si esprimesse negli uomini, o da un uomo che diventasse Dio: “Tutte le donne aspirano all’amore come se si trattasse / di un’essenza di morte e camminano per non / tremare e violano i principi della libertà, / tutte le donne chiudono la loro tenerezza in un vago tormento”. Le urgenze che hanno portato Alda Merini alla “follia” sono semplici come il bisogno d’amore (“cerchi nella cartella clinica il tuo primo concetto / lo perdi nel suo millenario amore.”)
Se questa è la condizione in cui visse, questa è anche la cifra poetica: un tracciato liscio, quasi prosastico, vellutato, ma dai contenuti atroci, strappati di donna dannata che ci fa passare attraverso il suo corpo materiato nella poesia e ci offre la catarsi a gambe spalancate, in sottoveste, col cranio aperto.
La filosofa Hanna Arendt affermava che gli ebrei, in un preciso momento storico, funsero da capro espiatorio in grado di incanalare rabbia, umiliazione, dolore e violenza: in modo non del tutto dissimile ci siamo sempre serviti di chi è stato in grado di testimoniarci il viaggio e ritorno dall’inferno della mente, pur tra manifestazioni subcoscienti di scarso autocontrollo. Ci serviamo della letteratura di Alda Merini che è scaturita dalla sua vita per soddisfare quella “curiosità di dolore” di cui ella stessa parlò in una sua poesia. Questo avviene perché da sempre (secondo quanto una volta per tutte affermò la cultura antipositivista) l’irrazionale ha un effetto taumaturgico, liberatorio.
Perciò siamo ancora più grati ad una voce come questa, ad una donna e una poesia che somigliano allo spaginarsi di una rosa, che più si disfa e più profuma. Una scrittura che sconvolge e dilania, che entra senza difficoltà nelle orecchie; ma una poesia che è già in corpo (nei nostri corpi) come nicotina, che funziona da metadone, capace di pacificarci nell’astinenza di parole esatte, che solo un poeta sa trovare e pronunciare in nostro luogo.
Alda Merini ci ha impressionati ma è forse stata un atto d’amore e sacrificio. “Era la folgore a ciel sereno / e dopo l’amore era la pace immensa / la terrazza colorata del Nilo.”
 
 
 
 

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