di Francesco Corbisiero
Dalle parti di ‘Repubblica’ (vedi alla voce Ernesto Assante ) si fa un gran parlare della morte del rock, della sua presunta incapacità di interpretare ed esprimere le nuove sfide e le nuove proteste globali in un mondo che cambia. Si parte da un presupposto chiaro e condivisibile: le classifiche sono popolate da esserini come Lady Gaga o Rihanna et similia, che scalano i vertici in men che non si dica e i vecchi leoni del genere sembrano addomesticati, con la pancia piena e a cuccia, incapaci di ruggire come un tempo.
Ora, ‘Repubblica’ è un giornale la cui redazione ha sede a Roma. E, per l’amor del cielo, in questa città ci abito anch’io e la amo appassionatamente, ma l’unica cosa che mi fa veramente rimpiangere di non vivere a Milano è l’infinita quantità di concerti di portata internazionale che si susseguono nel perimetro e nei locali della vecchia signora lombarda, mitteleuropea e aperta per tradizione, la cui organizzazione è stoppata – o solo resa più problematica – da un provvedimento liberticida riguardante i decibel, istituito dalla giunta Moratti e che il sindaco Pisapia, nonostante le pressioni dell’elettorato e del mondo artistico che l’ha sostenuto durante la campagna elettorale, ancora non ha abolito.
Quello che voglio dire è che, se il quotidiano di Piazza dell’Indipendenza fosse meno lontano dagli echi musicali nordici e andasse a sentire il concerto – nonché unica data italiana – dei Black Keys all’Alcatraz il 30 del corrente mese e sold out ormai da tempo, molto probabilmente non parlerebbe affatto di crisi del rock, anzi. Perché loro, i nipotini di Elvis Presley, il duo americano più popolare e chiacchierato del momento (a rendere la loro fama ‘a lunga conservazione’ dovranno pensarci solo loro e sono già sulla buona strada) è proprio così: rock’n’roll nel sound e nell’attitudine e sempre in giro per il mondo a calcare i palchi di Europa e America e soddisfare la messe di fan che crescono sempre più. Anni di gavetta e dopo un fortunatissimo ‘Brothers’, eccoli lì, sulla cresta dell’onda, tutta meritata. Una chitarra che graffia e morde e una batteria che pesta come Dio comanda, semplici e senza fronzoli. Ruggenti e nient’affatto impauriti dal successo.
Eppure il duo di Akron di strada ne ha fatta per arrivare fin qui. Dalle origini dei primi Ep, già oggetto di interesse dai tempi della pubblicazione, passando per i suoni arrugginiti e saturi di ‘Attack and release’ fino ai progetti paralleli di Dan Auerbach e Patrick Carney; dal blues dell’America profonda al funk dalle corde sporche, con melodie e arrangiamenti scevri dalle influenze grunge e completamente estranei al filone post-punk dell’ultimo decennio (che i due odiano come la peste), per giungere a un album dannatamente azzeccato e messo lì al momento giusto, ideale e degna prosecuzione del precedente. Forse non incisivo come ci si aspettava, ma perfetta prova di forza dei Black Keys, che alternano con burbera grazia fasi tese e violente a ballate di velluto, come a voler prendere fiato. E potrei parlare delle sfumature psichedeliche alla Hendrix che sono comprese nel prezzo dell’album, ma conviene ascoltarle da sé queste 11 canzoni che scorrono nel lettore o, che si voglia, sulla puntina – per gli amanti del vinile la premiata ditta ha pensato anche a questo – con facilità, ma non senza colpo ferire. Per capirle e farle proprie e rimanerne esaltati, esausti e contenti.
E ok, forse questi due simpatici scarrafoni dell’Ohio non saranno mai i portabandiera canzonettistici di Occupy Wall Street e non butteranno giù brani alla Dylan sui tempi che corrono, e probabilmente non avranno mai alcuna ambizione verso il cantautorato impegnato e alto. Ma resta il fatto che ‘Repubblica’ può dormire sonni tranquilli, la situazione è buona e il rock non è morto. Almeno secondo noi.