di Stefania Taruffi
Ogni tanto accade che qualcuno riesca a ‘osare’, a operare il cambiamento andando oltre il male fisico, una fredda diagnosi, le tradizioni mediche o le apparenze, magari entrando tra i meandri della mente, che tanto influisce
sulle condizioni fisiche dei malati, gli esseri umani più fragili e vulnerabili, per guarirli semplicemente facendoli danzare. Perché tutto può essere compiuto con la forza della felicità e dell’allegria.
Abbiamo incontrato il team della Chèveredance Therapy nel loro studio di Roma, nel quartiere Talenti: l’ideatrice del progetto è Paola Bianco, fisioterapista della riabilitazione con molti anni di esperienza nel campo. Per ‘disintossicarsi’ dal suo faticoso lavoro, Paola frequenta una palestra di danza, dove conosce il ballerino Jairo Whadimir Coello Gonzales, in arte Anthony Coello, che da anni tiene corsi di ‘Chèveredance’, una danza la cui caratteristica principale è quella di fornire un approccio di tipo ‘terapeutico’ al ballo, allo scopo di dare innanzitutto serenità e benessere a chi lo pratica. Entrambi i professionisti sono molto preparati nel loro campo, ma sono anche persone molto altruiste, attente ai bisogni del prossimo. Il loro, dunque, è stato piuttosto un ‘incontro’ di anime affini. E, come spesso accade, quando alle capacità si unisce una disposizione d’animo positiva, possono nascere soluzioni innovative e creative, che se si ha il coraggio di applicarle a un campo prettamente medico – scientifico possono essere addirittura ‘rivoluzionarie’. Così è nata la Chèveredance Therapy, una nuova forma di fisioterapia i cui movimenti, invariati rispetto alle tecniche tradizionali, vengono ‘ballati’ a suon di musica, rendendo la cura non solo più piacevole, ma anche più efficace. Essa parte semplicemente dall’individuo e dalla sua necessità di serenità, indispensabile per una guarigione completa, sia fisica, sia interiore. Vista l’implicazione psicologica della terapia, il gruppo si è perciò aperto al contributo dello psicologo Federico Aniballi. Nello studio, inoltre, lavora anche un ortottista, Fabrizio Scordino, che avvicinandosi alla Chèveredance Therapy del gruppo nascente ha voluto applicare questo nuovo metodo anche nel suo campo, ben sapendo quanto il movimento sia legato anche agli occhi. La Chèveredance Therapy è sorta solo da un anno e mezzo, ma di strada ne ha già percorsa molta e le premesse per il futuro sono divenute addirittura entusiasmanti.
Paola Bianco, ci parla della sua formazione professionale come fisioterapista?
“Io nasco come fisioterapista classica, d’impostazione tradizionale in campo neurologico, poi sono passata alle tecniche respiratorie. In seguito, avvicinandomi allo Shiatsu, ho capito che in realtà si poteva avere un approccio anche meno scientifico e razionale con il paziente e mi sono avvicinata alla medicina tradizionale cinese. Di lì, ho poi cominciato a capire che l’individuo doveva esser visto non soltanto attraverso il sintomo, ma anche in maniera ‘olistica’, cercando cioè di capire la causa, andando oltre la sintomatologia. Da qui è nata l’esigenza di avvalermi anche della collaborazione, per competenza, di uno psicologo. Sono passata poi a esplorare altri campi, come la riflessologia plantare, la terapia crano – sacrale, la ginnastica posturale. Ora mi sono orientata verso la sperimentazione del lavoro che si può fare su un paziente attraverso la Chèveredance. L’incontro con Anthony, circa un anno e mezzo fa, è stato molto importante per me. E come noi, nella Chèveredance Therapy ci hanno creduto in molti. Infatti, teniamo anche congressi e seminari all’Università ‘la Sapienza’, presso la Facoltà di Fisioterapia. A oggi, abbiamo tenuto tre convegni di Chèveredance Therapy, di riabilitazione respiratoria e visiva, di approccio psicologico sui pazienti inteso come sblocco emozionale. E abbiamo tenuto anche un corso di formazione professionale per gli studenti, i medici e i fisioterapisti al fine di illustrare loro la nuova tecnica. Siamo stati chiamati nella clinica ‘Paideia’ dalla Dott.ssa Laura Marchetti, che ricordo e ringrazio con gratitudine e affetto, a tenere congressi ai fisioterapisti, per fare loro conoscere la Chèveredance Therapy come metodo complementare alle tradizionali tecniche respiratorie e riabilitative e far provare loro in prima persona l’emozione della danza. E’ importante che chi operi nel settore provi in prima persona le tecniche”.
Com’è nata questa nuova metodologia della Chèveredance Therapy e questo meraviglioso gruppo di lavoro?
“Quando ho conosciuto il ballerino Anthony Coello mi ha colpito subito la sua straordinaria sensibilità. Ho intuito che lui era adatto a un lavoro sui pazienti che andasse ‘oltre’ la danza, che li facesse guarire danzando. Abbiamo così predisposto un progetto che unisse le mie competenze in campo fisioterapico e la sua creatività, cominciando a lavorare su una ragazza la quale aveva il dotto linfatico severamente lesionato, su pazienti malati di Parkinson, persone con problemi psicologici gravi. Andando avanti, ci siamo resi conto che in alcuni pazienti c’era anche la necessità di uno ‘sblocco’ emotivo che nessuno dei due poteva gestire. Perciò abbiamo introdotto a nostro supporto anche la figura dello psicologo, che segue i pazienti che ne hanno bisogno, anche singolarmente. In questo progetto, poi, abbiamo anche incluso la riabilitazione visiva, perché attraverso la danza c’è anche un lavoro di muscoli oculari. Abbiamo fatto degli esperimenti e abbiamo notato che subito dopo la Chèveredance, la vista dei pazienti che presentavano difetti visivi migliorava. I risultati sono stati immediati ed è questo che ci ha dato la forza di continuare. Quando vedi che il paziente si diverte e sta bene, si lavora meglio. Abbiamo visto che gli stessi muscoli respiratori che lavorano attraverso le tecniche tradizionali, possono essere attivati anche attraverso, ad esempio, la danza del ventre o la danza classica. Hanno fatto degli studi all’Università di Washington che abbiamo anche verificato nella nostra esperienza: attraverso la danza terapia c’è un miglioramento dell’equilibrio e della coordinazione nei pazienti ammalati di Parkinson. C’è un’interazione tra elementi psicologici e fisioterapici: ad esempio, abbiamo notato che uno sblocco emotivo rende possibile un’apertura della postura. Questo perché un paziente malato è introverso e tende, quindi, ad aumentare la cifosi e si ripiega anche il suo corpo. Le persone che cominciano ad acquisire una miglior conoscenza del proprio schema corporeo, come riabilitazione in senso stretto, acquisiscono anche una maggiore consapevolezza di sé e degli altri e tendono ad aprirsi, a guardarsi intorno. Il risultato è un miglioramento del problema fisico, della postura e, di riflesso, una migliore disposizione dell’animo”.
A quali patologie può essere applicata la Chèveredance Therapy?
“A tutte: il paziente è valutato e si stabilisce se esso vada trattato singolarmente o in gruppo. Secondo il caso, lo inseriamo in un programma. Ovviamente, nel caso fosse utile, utilizziamo la Chèveredance Therapy. Se invece il paziente non si sente in linea con questo metodo non possiamo forzarlo. Allora, procediamo con il metodo tradizionale, ciascuno per competenza”.
Qual è la vostra forza? Il gruppo?
“Sì, certamente: l’incontro di varie professionalità di alto livello, rappresentate da persone speciali e sensibili. Ciascuno di noi lavora individualmente, per competenza, senza sopraffazione di ruolo o competitività, ma in un clima di profonda sinergia, compenetrazione e altruismo”.
C’è dunque un grosso lavoro di preparazione, di creazione, alla base della Chèveredance Therapy come metodo fisioterapico?
“Sì. Si trattava di trasformare la terapia fisioterapica in qualcosa di diverso, ma ugualmente efficace. Ci siamo anche documentati in molti settori e abbiamo studiato la ‘biodanza’. La ‘danza – terapia’ già esisteva: noi non abbiamo inventato nulla di nuovo. Tuttavia, essa era concentrata soprattutto sui problemi psicologici e cercava di liberare le persone dai blocchi emotivi. Noi, invece, lavoriamo sull’elemento fisico, anche se quello psicologico esiste ed è presente: c’è la malattia”.
Qual è il vostro approccio al paziente? C’è una fase di programmazione del lavoro, per stabilire il quadro clinico del malato e decidere il metodo migliore?
“Certamente. Ad esempio, nella clinica dove lavoro, l’Istituto neuro traumatologico italiano, mi è stata data la possibilità di seguire un gruppo di persone ricoverate in convenzione. Non mi può seguire anche Anthony, perché purtroppo, in Italia, non c’è molta apertura a queste nuove tecniche nel settore pubblico e non è prevista una figura come la sua, non essendo riconosciuta. Lì i pazienti sono anziani, ci sono emiplegici, affetti da morbo di Parkinson o da problemi respiratori. Anche senza il supporto del maestro di ballo, io cerco di applicare lo stesso principio: far muovere i pazienti al ritmo della musica. Già il solo movimento al ritmo della musica li rende più felici, più predisposti a fare i movimenti. E i risultati sono incredibili”.
Anthony Coelho, qual è la sua formazione?
“Io nasco come trainer nelle palestre, ma sin da piccolo ho amato la danza e m’incuriosivano tutti i tipi di danza esistenti, poiché ciascuna è diversa e dà un’emozione distinta. Sono diciotto anni che lavoro con le persone e, ormai, riesco a capire i loro stati d’animo, il motivo per il quale vengono a ballare, se sono tristi, quando hanno problemi. Ed io ho sempre cercato di offrire loro la possibilità di trascorrere da me un’ora che li renda felici e rappresenti ‘il loro momento’. Il lato emozionale della danza è sempre stato, per me, il più importante. Il mondo della danza è, in genere, molto competitivo, ma non la Chèveredance, che è un miscuglio tra fitness e ballo. In questo caso, non c’è competizione: qui le persone sono libere di essere se stesse, di muoversi nello spazio esprimendosi con il proprio corpo in maniera liberatoria. Io utilizzo diversi tipi di danza e di musica, perché ognuna tocca un livello emotivo diverso: una rilassa, l’altra stimola la fantasia, un’altra dà equilibrio, un’altra ancora è melanconica. Farle tutte riequilibra il nostro livello emotivo, che fluttua da un’emozione all’altra. Il cambiamento è tangibile: la persona entra chiusa, arrabbiata, curva e, dopo la terapia, esce con più energia, forte, allegra. Il mio scopo è di far uscire le persone di qui con una maggiore consapevolezza del proprio corpo e di se stesse: di farle stare meglio. Molte persone sono bloccate, non si lasciano andare: tutti possono ballare, è solo un problema di coordinamento, di disposizione. Basta essere se stessi, liberarsi dalle inibizioni. Ballando si liberano energie, anche quelle negative e si è più disponibili, più positivi. L’incontro con Paola mi ha dato l’opportunità di applicare la Chèveredance in campo medico e un anno fa è nata la Chèveredance Therapy”.
Che tipo di musica utilizzate?
“Tutti i tipi di musica: dal walzer alla baciata, il tango, la classica, merengue e così via. Perché ognuno, alla fine, balla quello che ‘sente’. L’importante è che poi ci sia il movimento in funzione di quello che è lo scopo terapeutico. Ognuno deve replicare quello che sente, senza schemi o competizioni: deve semplicemente essere se stesso nel fare i movimenti”.
Avete in previsione anche la ‘formazione’ professionale, per far conoscere di più questo nuovo metodo agli addetti ai lavori?
“Sì, è previsto. Il nostro gruppo è nuovo, perciò prevediamo anche la formazione, in futuro, sia dei fisioterapisti, sia dei ballerini”.
Federico Annibaldi, lei è lo psicologo di supporto: qual è il suo ruolo specifico nel gruppo di lavoro?
“Inizialmente, la mia figura non era prevista: è stata inserita in seguito. Il corpo registra la sofferenza, i dolori, i bisogni, i desideri e, quando si balla, questi vengono fuori. Quando sono molto intensi o un problema, essi emergono e serve un giusto contenimento, che non può esser dato né da un maestro di ballo, né da un fisioterapista: c’è bisogno che gli si dia un significato profondamente psicologico, che serva non solo a ‘contenere’ il problema nel momento in cui sopraggiunge, ma soprattutto a dargli un significato, affinché possa essere catartico, cioè che da una forma puramente espressivo-negativa diventi qualcosa espressivo in termini evolutivi, positivi. La connotazione della dimensione psicologica si occupa di due cose: di dare un significato a questo movimento e vedere come metterlo al servizio del cliente. Inoltre, fornisce una serie di riflessioni che stanno all’origine del problema e che possono dare una maggiore capacità penetrativa del servizio”.
Perché questo servizio ha un senso? Dove sta la novità rispetto ai metodi tradizionali di fisioterapia classica?
“Perché è un modo diverso di ‘toccare’ il paziente. Quando dico ‘toccare’ mi riferisco alle manovre fisioterapiche, che sono le stesse sia nella fisioterapia tradizionale, sia nella Chèveredance Therapy, solo che in questa sono fatte a passo di danza. E quando parliamo di danza, ci riferiamo al tipo di danza che può fare il paziente, non il ballerino. Ci sono due modi per approcciare un paziente: fargli fare noiosamente lo stesso gesto in maniera ripetuta e costante, oppure farlo a suon di musica, integrandolo cioè all’interno di un ballo. La differenza è che, in quest’ultimo modo, il paziente fa la stessa cosa, ma la fa divertendosi, mettendoci più impegno e più energia”.
Molte malattie sono psicosomatiche e non si sa da dove parta il sintomo, se dalla psiche o dal corpo: c’è un limite sottile tra le due sfere, vero?
“La branca della psicosomatica studia proprio la correlazione tra la mente e il corpo e come ciò possa andare a discapito del corpo e quindi essere trasformata in malattia. Noi, invece, ci occupiamo di percorrere la stessa strada, ma al contrario: utilizziamo cioè la mente, il divertimento, l’emozione, la visceralità di un gesto straordinario come quello della danza unita alla musica, per cercare di rendere benefica questa correlazione tra mente e corpo. E’ questo l’aspetto più interessante: il gesto è codificato, altrimenti rimane un atto vuoto, fine a se stesso, anziché esser messo al servizio del paziente per permettergli di diventare padrone di quel che fa divertendosi, ma avendo anche un effetto terapeutico. Per arrivare a ciò bisogna essere prima padroni di tutte le tecniche dal punto di vista clinico: senza una padronanza totale delle tecniche fisioterapiche non è possibile semplificarle in un gesto artistico. Perciò, il lavoro di trasformazione non è improvvisato ma studiato nei minimi dettagli”.
Fabrizio Scordino, lei è ortottista: ci spiega la sua specialità e di cosa si occupa?
“Noi abilitiamo alla visione gli ipovedenti, quelli che hanno un residuo visivo molto basso, un campo visivo ristretto, per cui lo spazio tridimensionale è visto in modo particolare”.
E come si è avvicinato a Paola e alla Chèveredance Therapy?
“Conoscevo Paola Bianco da molti anni: siamo nello stesso studio. Entrambi sapevamo bene quanto vista e postura fossero strettamente collegate: in altre parole, una persona che vede poco non si muove bene nello spazio tridimensionale. Perciò, consci di questo fatto, ormai accademico, abbiamo deciso di inserire nella Chèveredance anche pazienti che hanno residui visivi molto bassi. Questo fa sì che il paziente percepisca lo spazio con il movimento e la musica, i quali lo aiutano a percepire quello spazio tridimensionale che con gli occhi non può più avvertire. Non dobbiamo dimenticare che l’ipovedente è chi ha visto, che ha una memoria visiva e che deve riprendere confidenza con l’ambiente che lo circonda, ma che lui ha già conosciuto. Lo scopo è di aiutare il paziente a vedere con il residuo di retina che gli resta: dobbiamo quindi insegnargli che lui non vede solo con gli occhi, ma anche con le mani, con il corpo, con la sua postura. In tal modo, lo educhiamo a essere autosufficiente in casa, a versarsi l’acqua, a scendere da solo per fare la spesa, ad andare alla posta, a distinguere le monete, guadagnando in sicurezza e, quindi, in autonomia. Il paziente viene ‘educato’ a posizionare gli occhi nei punti retinici ancora validi. E ciò può accadere perché Anthony, insieme ai movimenti del corpo, fa fare al paziente anche i movimenti degli occhi, per cui lo sguardo laterale fa sì che le retine ancora buone riescano a percepire lo spazio che le circonda. E’ una cosa straordinaria: per dodici anni, nella mia stanzetta, ho cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con gli esercizi accademici tradizionali. Ora, con la Chèveredance, mi si è aperto un mondo dalle potenzialità incredibili e dai risultati certi: gli obiettivi che prima raggiungevo in sei mesi o un anno, ora li ottengo in molto meno tempo e questa cosa è appassionante! E l’impatto sociale che ne deriva è davvero molto importante”.
Tra quelle quattro mura si respira quello che definisce e decreta il successo di un progetto: studio, lavoro, applicazione, sperimentazione, creatività, sensibilità, generosità, altruismo, ma soprattutto passione e amore. L’amore che guarisce la vita.