Di David Spiegelman
«O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – tornavo a sognare lo stesso sogno». Impossibile dimenticare questo incipit. Or sono trent’anni, da quando un piccolo libro blu notte, estorto da Leonardo Sciascia a uno sconosciuto e schivo professore comisano in pensione, impose non solo Diceria dell’untore e Gesualdo Bufalino, ma la piccola casa editrice palermitana che aveva pubblicato quello straordinario romanzo fuori dal tempo, fuori dal mondo.
Elvira Sellerio, il cui romanzo si è chiuso ieri tra le mosche del meriggio ai piedi del Monte Pellegrino, era allora un’indocile vecchia ragazza sicula, discendente di un alto funzionario dello Stato ma riluttante all’idea di fare la figlia di famiglia. Col tempo si era invece fatta bambina, curiosa e vorace di letteratura e della sua variante minore chiamata vita. Bufalino portò a Palermo, con quel racconto di un contagio mancato poi divenuto pellicola nella rilettura del regista Beppe Cino, il Premio Campiello, titolo maggiore tra le lauree ordinarie nella carriera di un marchio sempre attento alla qualità, più che al facile consenso.
Non c’è, nello scenario editoriale italiano e forse internazionale, un miracolo quotidiano pari a quello della casa fondata sul finire degli anni Sessanta da Elvira, insieme col marito Enzo, anch’egli evaso da un destino di leguleio con lo strumento della macchina fotografica. E proprio la prefazione al catalogo di una mostra fotografica, “Una Kodak per Faust”, avrebbe messo l’autore de L’affaire Moro sulle tracce di Bufalino, prima grande scoperta della casa.
Dalla dimensione localistica dei primi anni, la collaborazione sempre più intensa con Sciascia portò la Sellerio a diventare una società editrice di valore assoluto, con un catalogo forte di autori come Antonio Tabucchi, Hector Bianciotti, Vincenzo Consolo, Manuel Vazquez Montalban e Roberto Bolano oltre allo stesso irrequieto polemista di Racalmuto. Inconfondibile l’elegantissima veste grafica, curata nella carta di Fabriano come nella scelta delle immagini di copertina, ma era la sostanza delle opere a costruire la cifra di un editore uguale soltanto a se stesso, impareggiabile nella rabdomanzia che lo portava a scoprire talenti come Francesco Recami, Marco Malvaldi, Pietro Grossi e l’immenso Sergio Atzeni, un oscuro e sfuggente sardo dalla vita breve la cui presenza nel catalogo giustificherebbe da sola il percorso editoriale di Elvira.
Quella collana aveva una denominazione presaga, “La memoria”, e avrebbe compreso titoli altrimenti irraggiungibili come i “Delitti esemplari” di Max Aub, “La scacchiera davanti allo specchio” di Massimo Bontempelli e un salutare apologo sullo scetticismo come “Il procuratore della Giudea” di Anatole France, il libro di collana più economico della storia dell’editoria italiana, perché costava appena mille lire all’epoca della pubblicazione.
Negli anni sarebbero arrivati anche i grandi successi commerciali, addirittura enormi nel caso di Andrea Camilleri, che avrebbe impropriamente riaccentuato la “sicilitudine” di una casa editrice dal respiro ontologicamente cosmopolita. Anche Gianrico Carofiglio è una delle ultime scoperte della Sellerio, che anni fa aveva voluto compiere un gesto di grande valore, donando l’intero catalogo in magazzino (63.400 volumi, valore commerciale un miliardo e mezzo di lire) alle biblioteche dei penitenziari italiani. Era stato quello il modo di riallineare la storia della propria creatura al legame sempre più intenso nel tempo con Adriano Sofri, prima collaboratore e poi direttore editoriale, a cui favore Elvira si era sempre battuta fin dagli arresti del luglio 1988 nel quadro dell’inchiesta sul delitto Calabresi.
Ora che l’ultima pagina si è chiusa, Elvira Sellerio lascia una vita che è stata il suo romanzo. Non ha mai scritto nulla, non ha ceduto alla tentazione che spesso coglie molti di coloro che lavorino in mezzo ai libri degli altri. Era orgogliosamente umile ed è per questo, oltre che per le sue doti intellettuali e umane, che i suoi autori la consideravano una di famiglia: esigente, rigorosa, ma sincera e leale.
Servirebbe adesso qualcuno in grado di raccontare daccapo una storia che non può chiudersi, né riassumersi nelle centinaia di titoli presenti nelle biblioteche degli italiani. Nel frattempo il testimone e il timone passano nelle mani giuste: il figlio Antonio, economista laureato alla Bocconi con una tesi sulla storia della casa editrice, da tempo lavorava ad assicurare l’assenza di iati o, peggio, l’implosione di un marchio per forza di cose legato alla vicenda umana della fondatrice. Anche Olivia, l’altra figlia, svolge un ruolo importante a favore della continuità della casa editrice, per quanto tempo fa abbia pubblicato una cosa che non si legge ma si ascolta, uno splendido disco di canti tradizionali siciliani rielaborati in chiave jazzistica.
“Vinissi lu jornu e lu momentu”, recita uno dei brani. Un saluto, un arrivederci, una promessa. O forse, come scrive uno degli autori di Olivia, un ricordo esaudito.