di Cinzia Colella
In una Roma ancora non perfettamente pronta per tagliare i nastri di partenza della sesta edizione del Festival del Cinema, ieri sera c’è stato il primo duetto della rassegna affidato ad una bellezza internazionale e ad un talento italiano. A solcare il red carpet per primi sono stati Penelope Cruz e Sergio Castellitto impegnati in una timida pre-apertura di quella che dal 2006 è la manifestazione capitolina dedicata ai grandi nomi del cinema internazionale.
L’attrice spagnola – uno dei volti più amati da Almodovar e Woody Allen – e l’attore italiano hanno raccontato il loro collaudato sodalizio artistico proprio in occasione del loro ultimo lavoro insieme, che stanno ancora girando, “Venuto al mondo”. “Quando hai la fortuna di incontrare tanto talento generoso e di vedere che si moltiplica ogni giorno sul set ti senti un privilegiato”, dice Castellitto riferendosi alla Cruz. E lo stesso affetto è ricambiato proprio da lei che gli è grata per la crescita personale e umana alla quale la sta conducendo: “Per me Sergio e Margaret sono due delle persone più speciali che ho incontrato in tutta la mia vita e tutto quello che hanno nel cuore, la loro sensibilità, la portano sempre al lavoro e in tutto quello che fanno. Questo personaggio mi ha in qualche modo cambiato la vita e mi ha portato in un altro posto come donna e come artista”.
Nel cast c’è anche Emile Hirsch, tra i più promettenti attori del cinema americano, conosciuto ai più per la sua interpretazione in “Into the Wild” di Sean Penn e definito da Castellitto come un attore dotato di “una docilità e di una indipendenza artistica sensazionali”.
Il film, di cui Castellitto è anche regista e che probabilmente uscirà il prossimo anno, è ripreso dall’omonimo romando di Margaret Mazzantini (Premio Campiello 2009) racconta la vita di Gemma, una signora non più giovanissima, vive accanto al marito, Giuliano, e al figlio Pietro. Un’improvvisa telefonata turba la quiete di una notte come tante: la voce di uno straniero emoziona e sconvolge la donna riportandola indietro nel passato e in un paese straniero dilaniato dalla guerra, a Sarajevo.
“Credo che Sarajevo ti consegni una sensazione un po’ simile al mal d’Africa – ricorda il regista – : ti lascia un dolore, una pena, una nostalgia, una voglia, un’ebbrezza, una sensualità, una disperazione, una rabbia per ciò che è accaduto e che non doveva accadere, perché questa non è stata una guerra ma un assedio. E’ stata la corsa di un uomo disperato con una lattina d’acqua che attraversa la strada e che spera di non essere crivellato dai colpi di un cecchino. Non è stata una guerra di carri armati e di tute mimetiche, ma di bambini uccisi sulla neve. Sarajevo ancora oggi, hai la sensazione di una città che vuole ricominciare”.
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