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Giochi di guerra: Iran contro resto del Mondo?

di Paolo Cappelli

Ahmadinejad
Ahmadinejad in una vignetta

Mentre l’Italia del gossip discute animatamente a proposito delle esternazioni di Celentano, frena gli ormoni caoticamente instabili dopo l’apparizione del tatuaggio a forma di farfalla di Belén e contempla misticamente la guarigione della bella Ivana Mrazova, il mondo dei media sposta progressivamente i riflettori verso una crisi internazionale che ha radici profonde e implicazioni potenzialmente spaventose. Non si tratta, come sarebbe facile pensare, della crisi dell’Eurozona, delle difficoltà interne tedesche, della crisi del credito e della liquidità, o del possibile e da qualche parte sommessamente auspicato fallimento dello Stato greco.
La partita si gioca alcune centinaia di miglia più a sud-est del Peloponneso, là dove due unità navali iraniane hanno superato lo Stretto di Hormuz e indugiano nello specchio marittimo che affaccia sulle coste dall’Arabia Saudita, da un lato, e appunto dell’Iran, dall’altro. La sortita della Marina Militare di Teheran, mai spintasi così a nord in tempi recenti, potrebbe allungarsi fino a raggiungere le 12 miglia nautiche dal Kuwait. Pur se ancora in acque internazionali, due navi da guerra potenzialmente equipaggiate con missili a media/lunga gittata a sole 750 miglia nautiche da Gerusalemme non consentono al premier israeliano di dormire sonni tranquilli. Se si aggiunge che il Presidente iraniano, in passato, ha negato a Israele “il diritto di esistere”, il quadro della prudenza, per non dire del timore, si completa.
La minaccia
L’Iran è veramente in grado di colpire Israele lanciando testate ad alto potenziale (o fin anche nucleari)? La risposta è certamente affermativa. A fianco dei già noti missili a corto raggio (Scud B e C e le loro varianti cinesi, denominate, rispettivamente, M-9 e M-11, il Fatah A-100 e il Zelza), l’Iran dispone di un vasto assortimento di missili a gittata media, intermedia e lunga di classe Shabaab (Shabaab-3, 4 e 5) e ha da tempo avviato un programma di ricerca e sviluppo per la creazione di un missile intercontinentale (lo Shabaab-6) in grado di raggiungere persino il Regno Unito. Ciò che sembra essere inversamente proporzionale alla gittata, tuttavia, è l’accuratezza del sistema di guida. A differenza di un missile balistico intercontinentale di precisione, come il Trident II americano o il JL cinese, il “giovane” missile iraniano (Shabaab significa “giovinezza”) a più lunga gittata, è in grado di percorrere circa 7000 km, ma la sua precisione sarebbe scarsa. Nonostante l’elevato carico utile (fino a 1000 kg), un sistema d’arma di questo tipo sarebbe più indicato per un attacco cosiddetto “areale”, ad esempio per colpire un centro urbano, che non contro un singolo bersaglio, come un importante obiettivo militare. C’è comunque un buon margine per il miglioramento, giacché il programma di sviluppo gode dell’assistenza tecnica e del sostegno logistico di alcuni dei principali attori dello scacchiere geopolitico, segnatamente Russia, Cina e Corea del Nord.
Le opzioni
Un’ipotesi di questo tipo è tutt’altro che utopistica e questo per diversi motivi.
In primo luogo, facendo eco a quanto già dichiarato pochi giorni fa dal Vice Primo Ministro di Israele Silvan Shalom al Washington Post, l’Iran desidera ricostruire il ruolo egemonico che fu proprio dell’Impero persiano e acquisire una posizione di vantaggio, quando non anche di incontrastato dominio, in una regione che vede alcune presenze per ora tollerate, come quelle dei vicini Stati musulmani, e altre assolutamente inammissibili, come quella di Israele. Per fare questo, tanto il leader politico, il Presidente Ahmadinejad, quanto quello religioso, l’Ayatollah Khamenei, hanno ben pensato di dotarsi di una capacità di produzione di energia (e quindi di combustibile) nucleare che poco convince le grandi organizzazioni internazionali, Nazioni Unite in testa. I due vertici iraniani ritengono il predominio la conseguenza del possesso di una buona capacità di deterrenza (reale od ostentata, poco importa) e del controllo delle ricchezze petrolifere della regione. Bisognerebbe insegnare loro a leggere qualche libro di storia, oltre al Corano, affinché possano comprendere che un tale approccio si è già dimostrato fallimentare.
In secondo luogo, non è un segreto che Israele veda l’Iran come una minaccia alla sua stessa esistenza, molto più di tutti i paesi musulmani che lo circondano fin dalla sua creazione e con i quali si è misurato vittoriosamente più volte, pur essendo, in alcune occasioni, in inferiorità numerica e di risorse. Storicamente, Nazioni militarmente più forti, come nel caso dell’Egitto, hanno scelto di respingere l’aggressione israeliana senza impegnarsi in una guerra vera e duratura. Questo perché nella politica internazionale, nonostante tutto, c’è sempre una misura, c’è consapevolezza del “cosa potrebbe succedere se…”. Ufficialmente, Israele non dispone di armi nucleari. Ufficialmente. Se ne avesse e se fosse attaccato, ovviamente, non esiterebbe a utilizzarle.
In terzo luogo c’è la probabile volontà di alcuni elementi radicali iraniani di giungere a un conflitto, ancorché non di grandi proporzioni. Se la chiusura dello Stretto di Hormuz – e quindi l’interruzione dei flussi di petrolio – porterebbe a una condanna dell’Iran a livello globale, un attacco limitato portato da Israele o dagli Stati Uniti consentirebbe, da un lato, di espellere “per la loro stessa sicurezza” gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dall’altro di coagulare il sostegno della popolazione iraniana attorno alla sua leadership, superando le forti spaccature interne e la contrarietà popolare.
I protagonisti
Poi c’è la questione degli schieramenti. Si accennava prima al sostegno offerto da Cina, Russia e Corea del Nord. La Cina è un Paese in forte sviluppo, che non ha mai smesso di alimentare il proprio apparato militare, preferendo modernizzarlo nel tempo piuttosto che ampliarlo. La Russia è detentrice di una buona fetta delle risorse energetiche del pianeta e ha un rapporto privilegiato con l’Occidente, cui però la lega una diffidenza atavica, mentre la Corea del Nord, che ha alle spalle il grande Paese del libretto rosso, è da sempre nemica della sorella meridionale, sostenuta e protetta, come Israele, dagli Stati Uniti. Da questo lungo elenco dei principali attori dello scacchiere geopolitico mancano ancora due protagonisti, ovvero India e Pakistan. Un’offensiva di Teheran contro Israele, o peggio, un attacco preventivo di quest’ultimo contro il Paese degli ayatollah, potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Visto l’alto numero di fattori, pardon, di Nazioni in gioco, tuttavia, la volatilità della situazione non può che aumentare. E non sarebbe la prima volta. Oggi, nello Stretto di Hormuz, oltre alle due navi iraniane, incrociano anche unità navali statunitensi. Ieri, ad esempio il 3 luglio 1988, la USS Vincennes che operava nella stessa area ritenne di essere sotto attacco e fece fuoco contro un velivolo, che si rivelò poi essere un volo di linea, uccidendo l’equipaggio e i 290 passeggeri a bordo. Cosa succederebbe in caso un simile incidente si ripetesse oggi? O meglio, cosa lo immaginiamo, ma quanto (poco) ci vorrebbe perché la situazione spiralizzasse in senso negativo?
Né sorprende l’apparente inattività del Paese della stella di David. Dopo la figuraccia, a dir poco, nel caso dell’Iraq, in cui davano per certa l’esistenza di armi di distruzione di massa poi mai trovate, gli Stati Uniti sono ora particolarmente cauti e non desiderano lanciare accuse prima di avere in mano dati certi. Ecco qual è l’importanza del ruolo della già citata AIEA e la ragione del forte sostegno americano di cui godono i suoi sforzi. Obama, poi, non si getterebbe mai in pasto ai leoni da solo, appoggiando una guerra nello scacchiere mediorientale nello stesso anno delle elezioni. E’ altamente improbabile, quindi, che Gerusalemme decida di fare da sola: un attacco preventivo senza prove non sarebbe giustificabile e poco potrebbe fare Washington per difendere l’aggressore, allontanando dal voto per il Presidente uscente tutti gli ebrei d’America. Per contro, una politica attendista potrebbe comportare conseguenze ancor più gravi per Israele.
Come spesso accade, quindi, i tempi di risoluzione delle crisi internazionali seguono quelli della politica e della diplomazia e non viceversa, come ci si potrebbe attendere logicamente. Ma le prime, si sa, possono procedere a un ritmo così incalzante da doverle spesso rincorrere. Per non parlare di quando sono così veloci da perderne il controllo, come la storia c’insegna.

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