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Time celebra Jonathan Franzen

Di Paolo Cappelli
Immaginate di fermarvi davanti a un’edicola in una mattina di agosto e di vedere la vostra faccia sulla copertina di uno dei principali magazine d’America, che sforna soltanto, si fa per dire, più di tre milioni di copie a settimana. Una didascalia sotto la foto recita “Il grande romanziere americano”.
E’ quello che è successo a Jonathan Franzen, romanziere e saggista osannato dalla critica letteraria a stelle e strisce.  Solo pochi altri prima di lui hanno avuto questo onore, tra cui J.D. Salinger (1961), Vladimir Nabokov (1969), Günter Grass (1970), John Updike (1968 e 1982), George Orwell (1983), Tom Wolfe (1998), Toni Morrisson (1998).
Nato nel 1959 a Saint Louis, in quello stato del Missouri che fino a poco più di cento anni prima fu terra di schiavismo, Franzen è sul mercato da poco più di 20 anni. Risale infatti al 1988 la pubblicazione di La ventisettesima città, opera prima che lo ha suggerito all’attenzione della critica e nella quale l’autore fotografa, attraverso le azioni di una donna ambiziosa e avida di potere, chiamata a ricoprire l’incarico di capo della polizia, la parabola discendente della sua città natale, che, quarta nel 1870 tra quelle USA, si ritrova al 27° posto. Oggi rivalutata, anche grazie al successo dell’autore, l’opera non fece registrare un grandissimo successo di pubblico, gettando Franzen nello sconforto, successivamente aggravato dalla morte dei genitori e dalla fine del suo matrimonio.
Con Forte movimento (1992), Franzen è entrato nel mondo del “realismo isterico”, un genere letterario caratterizzato da lunghezza eccezionale del testo, azione frenetica, personaggi non convenzionali e lunghe digressioni su questioni di secondaria importanza. Ambientato nel 1987, il romanzo racconta di una famiglia piena di problemi, gli Holland. Qui l’autore sfrutta la propria passata esperienza di impiegato in un centro sismologico per creare un’analogia tra le scosse telluriche registrate a Boston e gli scossoni interni alla famiglia. L’intero lavoro è, in realtà, un’indagine dettagliata di fenomeni sociali specifici e reali.
Ma è solo con Le correzioni, lavoro del 2001 di critica sociale, che la notorietà di Franzen esplode. Ambientato a St. Jude, cittadina immaginaria del midwest americano, il romanzo narra delle vicissitudini della famiglia Lambert, in cui ogni membro, a partire dal padre colpito da demenza senile, all’apprensiva madre che vuole riunire tutta la famiglia prima della dipartita del genitore, ai tre figli, tutti in un modo o nell’altro convinti di aver “capito come funziona la vita” e di saper applicare i correttivi necessari a risolvere la situazione e fare in modo che “questa volta le cose vadano diversamente”. Lo stesso Frenzen ha affermato in un’intervista che ognuno dei personaggi racchiude “la consapevolezza del conflitto interiore e i drammi personali e sociali del nostro tempo”.
Premiato nel 2001 con il National Book Award e annoverato tra i Best Books of the Year 2001 dal New York Times, nel 2002 ha ottenuto il James Tait Black Memorial Prize, “rischiando” anche di vincere il Premio Pulitzer per la narrativa dello stesso anno (si è comunque posizionato secondo). Dopo che Oprah Winfrey scelse di includere il romanzo nel prestigioso Oprah Book Club, Franzen dichiarò che il logo del programma in copertina avrebbe potuto scoraggiare i lettori di sesso maschile e declinò l’invito a presentarlo nell’Oprah Winfrey Show, cosa che attirò un forte interesse da parte dei media e portò Le correzioni ad essere tra le prime dieci opere di narrativa più vendute del decennio.
La questione, però, è se non sia troppo presto per cingere il capo di questo pur brillante autore di una corona d’alloro e affidargli lo scettro della sapienza. E’ pur vero che lui non fa altro che scrivere. Sono poi i critici e il pubblico a determinare il successo di uno scrittore o a consegnarlo all’oblio. Ma la domanda è rivolta proprio ai critici: veramente Jonathan Franzen è meritevole dello stesso titolo che fu (postumo) di Hernest Hemingway? Può essere il portabandiera della “Great American Novel”, concetto che esprime un romanzo artisticamente e strutturalmente rappresentativo del più autentico e profondo spirito americano del tempo in cui è stato scritto?
Nonostante le positive reazioni della critica, qualcuno ha sollevato più di un appunto allo stile di Franzen, che risulterebbe verboso: nessuno dei romanzi ha meno di 500 pagine e la descrizione di un singolo pensiero può arrivare a richiedere una dozzina e più pagine. La tendenza di Franzen al periodare complesso e prolisso potrebbe (dovrebbe) essere bilanciata, secondo altri, dall’azione di editor decisi e fermi.
Pur tentando di rivitalizzare il romanzo sociale, sostengono alcuni detrattori, Franzen perderebbe continuamente di vista il fulcro del romanzo, muovendosi come in un labirinto di trame collegate e interdipendenti e di elementi apparentemente slegati dal contesto.
Nell’articolo su Time Magazine, Lev Grossman dipinge Franzen come uno dei migliori e più ambiziosi romanzieri americani e ne scrive come di un autore in forte crescita. James Wood (professore di letteratura e lingua inglese, che resta uno tra i suoi più feroci critici) ha dichiarato che “è evidente la sua maturazione letteraria ed artistica”. Resta quindi da vedere se Jonathan Franzen saprà continuare a regalarci dei gioielli letterari sotto forma di romanzo anche in futuro. Le premesse sono di fronte agli occhi di tutti e per questo è difficile immaginare un’involuzione in un indagatore della condizione psicologica e sociale della propria cultura.
Perché è questo che fa, Franzen: svela le nostre paure, mette a nudo le nostre reazioni di fronte alla realtà. Più che fotografarla, fa un lungometraggio verbale della società americana nel suo quotidiano divenire. Non è questa, forse, l’essenza del romanzo?

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