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Ground Zero e la moschea della discordia

Di Paolo Cappelli
Non poteva non suscitare polemiche la decisione di costruire un centro sociale, con annessa moschea, a pochi passi da Ground Zero, teatro di una delle più  gravi stragi (2.995 morti) non collegate a un conflitto in corso.  L’unico precedente significativo nella storia dell’America è stato l’attacco a Pearl Harbor (2.350 morti), ma in quel caso l’aggressione servì proprio a provocarla la guerra.
Oltre alla contestata moschea, il centro sociale di 13 piani dovrebbe ospitare un centro per le arti dello spettacolo, una palestra, un campo di basket e una piscina al coperto, una scuola di cucina, uno spazio per mostre, un ristorante, e una biblioteca.
Il progetto nasce con le migliori intenzioni, almeno a sentire l’imam Feisel Abdul Rauf, principale attore della Cordoba Initiative, un investimento da 100 milioni di dollari volto a riconvertire l’edificio della vecchia Burlington Coat Factory tra Park Place e Broadway, a due isolati dal sito in cui sorgeva il World Trade Center. Rauf ha affermato che il progetto mira a “costruire migliori relazioni tra l’occidente e i musulmani”. A rincarare la dose ci ha pensato Daisy Khan, Direttore esecutivo dell’American Society for Muslim Advancement e membro della Cordoba Initiative (nonché moglie dell’imam): “Dobbiamo raccogliere l’eredità dell’11 settembre e trasformarla in qualcosa di positivo. […] È giunto il momento di costruire un centro come questo perché l’islam è una religione americana. Il centro, inoltre, fornirebbe lavoro a tempo pieno a 150 persone e part-time ad altre 500″.
La blogosfera non poteva certo stare a guardare in silenzio. Rimbalzata velocemente, la notizia, è divenuta oggetto di accese e controverse discussioni tra i favorevoli e i contrari. Le ragioni prevalenti di questi ultimi si fondano sull’inopportunità di costruire un luogo di preghiera islamico, poiché coloro che furono causa del feroce attentato che sconvolse e cambiò per sempre l’America rivendicarono proprio l’appartenenza a quella religione, sollevando contrapposizione ed odio.  Purtroppo sebbene il buon senso porti ad un opportuno discernimento tra i fedeli dell’islam e gli estremisti terroristi, la questione della moschea continua ad assumere i tratti dell’affronto. “Costruire il centro accanto a quello che fu il World Trade Center non aiuterà certo ad alleviare il dolore e in quanto a facilitare la comprensione dell’islam, il centro non sarebbe che un memoriale alla malvagità di cui questo è stato capace e del dolore che viene inferto alle donne ogni giorno dall’applicazione della shari’a”, scrive Ethel Fenig su American Thinker, quotidiano digitale molto seguito negli Stati Uniti. Altri si spingono ben oltre: un utente del blog Ruthfully Yours, il quale si firma saynotothemosque, ipotizza che l’aver concesso i permessi di costruzione “equivale ad offrire un comodo luogo d’incontro a futuri terroristi e a quelli che comprendono il vero messaggio dell’imam Rauf: «apparire un membro integrato nella società americana e pianificare dall’interno la distruzione dell’America»” e che “sarebbe un monumento a una delle più grandi vittorie militari dei tempi moderni”.
Sarebbe però ingiusto non citare due elementi a sostegno della costruzione del centro, uno di natura procedurale e uno, più importante, di natura giuridico-morale.
In merito al primo, il Comitato di Quartiere n.1 di Manhattan si è espresso in maniera forte a favore della costruzione (29 voti a favore, 10 astensioni, 1 contrario). Il centro, nelle parole di uno dei membri, Rob Townley, “sarà un luogo di pace e rappresenta un grande passo avanti da parte della comunità musulmana contrastare i sentimenti di odio e fanatismo propri di una minoranza”.
L’altro elemento di sostegno, peraltro non di poco conto, riguarda l’appoggio dato dal Presidente Obama. Qui va subito chiarito un punto: Obama non si è espresso a favore della moschea. Ha semplicemente detto che i musulmani hanno diritto di costruire una moschea, anche nelle vicinanze di Ground Zero, guardandosi bene dal dire se pensa che ciò sia una buona idea o meno. Le parole del Presidente, complice l’imminente rinnovo di parte del Senato e di tutta la Camera dei Rappresentanti, hanno fomentato forti critiche nel mondo politico americano, con posizioni trasversali tra repubblicani favorevoli e democratici contrari. A favore della costruzione si è anche espresso Abraham H. Foxman, sopravvissuto all’olocausto e capo della Anti Defamation League, influente organizzazione ebraica che combatte contro i pregiudizi e il razzismo. Foxman ha sostenuto il diritto di costruire il centro, ma ha fortemente sostenuto l’idea che ciò non avvenga in prossimità del sito che ospitò le Twin Towers.
Di fatto, alcune considerazioni pongono in posizione subalterna la posizione di chi si oppone alla costruzione del centro. Innanzitutto, pur rispettando le vittime e i loro familiari, è necessario a un certo punto decidere di andare avanti e superare l’immobilismo del dolore. Poi va considerato che per gli americani hanno una fondamentale importanza, nell’etica politica, i documenti stilati dai Padri Fondatori: la Dichiarazione d’Indipendenza afferma che “tutti gli uomini sono stati creati uguali” e che “tale verità è palese”, quindi, a rigor di logica, la costruzione della moschea non dovrebbe essere un problema. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, un luogo di preghiera islamico, Masjid Manhattan, sorge a circa 300 metri da Ground Zero ed era là già prima dell’11 settembre.
E’ ovviamente difficile instillare nelle menti di chi ha avuto un padre, una sorella, un amico tra le vittime, che il centro e la moschea “siano cosa buona”, particolarmente perché il progetto prende il nome dall’omonima città spagnola, capitale dei conquistatori musulmani che, per simbolizzare la propria vittoria contro i cristiani spagnoli, scelsero di trasformare una chiesa locale nella terza moschea del mondo per dimensione.  Forse a porre fine ai feroci dibattiti a causa della moschea della discordia sarà la stessa comunità islamica di New York, che dopo due settimane di confronto-scontro  parrebbe disposta a rinunciare, un gesto definito di “appeasement”, di “pacificazione”, nei confronti dei familiari delle vittime.

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