Di Paolo Cappelli
In principio era il link. Per l’esattezza parliamo del 1987 quando la Apple Computer rese disponibile sul mercato un software ipertestuale, uno dei primi sistemi per creare ipertesti, ovvero un insieme di documenti messi in relazione tra loro tramite delle parole chiave. Recentemente è nata una discussione in rete sulla leggibilità degli ipertesti. Nicholas Carr, scrittore americano cinquantenne con in tasca una laurea presa ad Harvard, quattro libri all’attivo su temi inerenti la tecnologia, il business e la cultura, oltre a un’innumerevole quantità di articoli, sostiene che i collegamenti in un testo digitale (o link, se preferite l’espressione inglese) riducano la leggibilità e inducano il lettore a non prestare attenzione a ciò che legge. Non contento di averlo scritto in un articolo, ha ampliato i concetti e ne ha fatto un libro: “The Shallows: What the Internet Is Doing to Our Brains”. A sostegno della sua tesi, cita studi secondo i quali la corteccia prefrontale sarebbe in qualche modo ‘scossa’ dalla presenza del collegamento a un altro testo, al punto da impegnare parte delle abilità cognitive per decidere se usufruirne o meno. I contenuti multimediali, le interruzioni, il multitasking, il movimento a balzi dello sguardo da un punto a un altro, la condivisione dell’attenzione sono tutti elementi che, presi singolarmente sembrano non avere grande importanza ma, secondo Carr, è il loro effetto cumulativo a comportare un carico eccessivo per il nostro cervello.
Ora, chiunque utilizza internet ha incontrato un ipertesto. Proviamo a immaginare un testo come questo, in cui la pagina è occupata quasi per intero dall’articolo e la lettura è abbastanza lineare. Vi sentite distratti? In questo testo non compaiono molti link esterni, quindi teoricamente, riprendendo l’idea di Carr, il lettore dovrebbe concentrarsi al 100% sui contenuti. Il problema è che di contenuti ce n’è più di qualcuno: c’è la testata, il sommario, la colonna di destra con i prossimi eventi, gli articoli recenti, la pubblicità… Quanta roba per il nostro povero cervello!
Sarà capitato anche a voi di cliccare su un collegamento e accedere a una nuova pagina, e da quella a un’altra, e poi a un’altra; alla fine ci ritroviamo su una che non è neanche lontanamente collegata a quella di partenza. E poi, se non avessimo il tasto ‘Indietro’, ci ricorderemmo come ci siamo arrivati? Certo, c’è anche chi è più selettivo, ovvero chi apre una scheda separata per ogni link d’interesse e poi la va a consultare quando ha finito di leggere il primo testo, ma non sempre è così.
La soluzione di Carr al problema sta in una parola inglese brutta da pronunciare (e ancor più da tradurre) che è “delinkification”, in parole povere ‘la tendenza, da parte di chi scrive, a rimuovere i collegamenti presenti all’interno del testo e a raggrupparli in una lista al termine dell’articolo. In questo modo, l’attenzione rimarrebbe concentrata sui contenuti e non si perderebbe nei mille rivoli degli ‘hyperlink’.
Certo, c’è anche chi con questa tesi non concorda. Tra i maggiori detrattori va sicuramente citato Scott Rosemberg, altro giornalista, editor, blogger e saggista a stelle e strisce, il quale, in un ampio articolo, smonta passo passo le tesi di Carr a partire dagli studi che ne puntellano l’opinione. Inizialmente, è la nozione stessa di ipertesto ad essere sotto accusa: l’idea di una rete di connessioni e collegamenti per costruire un quadro di riferimento non è necessariamente causa di distrazione. Viceversa, chi scrive testi (buoni) per il web evita di inserire link ogni tre parole, proprio per evitare di confondere il lettore.
L’abuso di link è la spia che chi scrive o non sa come far bene i collegamenti, o non sa scrivere. Perché il pezzo sia ben scritto, secondo Rosemberg, si devono fornire riferimenti contenutistici a valenza esplicita e implicita. I primi sono quelli collegati direttamente a informazioni esplicative che consentono di capire ciò che si sta leggendo. I secondi quelli che fanno intuire chi sia e cosa ha scritto colui che scrive. I collegamenti, sostanzialmente, non sono solo il legame tra ‘significante’ e ‘significato’, ma anche una finestra sullo stile e il modo di vedere la vita.
Su una cosa i due autori concordano: che il web sia ormai pieno di distrazioni. Le finestre pop-up, le animazioni in flash, le offerte per il viaggio last minute che invadono i nostri schermi mentre cerchiamo informazioni relative a tutt’altri argomenti mettono veramente a dura prova la nostra attenzione. E tutto ciò, secondo Rosemberg, si deve a un’errata interpretazione della funzione del web, a una sua mercificazione. Tutte le ‘interferenze’ che quotidianamente subiamo celano, in realtà, intenti che vanno ben al di là della semplice pubblicità e coinvolgono complessi algoritmi di piazzamento delle pagine nei risultati dei motori di ricerca (uno è il cosiddetto PageRank di Google). Il concetto di ‘collegamento porta guadagno’ non è proprio dell’internet delle origini, ma lo è diventato nel momento in cui alcuni web editor hanno, per così dire, ‘fiutato l’affare’: un tot di click, un tot di soldi. Più in alto la pagina esce nelle ricerche di Google, più click si ricevono e più soldi si incassano.
E’ ovvio che ognuno può valutare le considerazioni dei due giornalisti/scrittori in maniera personale, sulla base dell’uso che fa della grande rete.
Dire che alcune pagine siano traboccanti di distrazioni è un’ovvietà.
Nonostante tutto, includere link in un testo completa la struttura non solo del testo stesso, ma dell’idea che questo promuove, oltre a far capire a chi legge come le idee del secondo testo si leghino a quelle del primo, e viceversa. Umberto Eco, in Il Nome della Rosa, fa dire al protagonista Guglielmo: “Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come si parlassero tra loro”. Lo stesso sembra valere per i testi.
Inoltre, citare altre fonti mostra che l’autore ha veramente fatto uno sforzo di ricerca, che sottopone all’azione giudicatrice del lettore il proprio lavoro, i propri processi mentali, anche quando non ci riesce. Non è capitato anche a voi di seguire un link considerato inerente e di dire poi ‘ma questo che c’entra con quello che leggevo?’
Ovviamente, questa è tutta teoria. Su internet non è molto comune trovare documenti pensati, scritti e pubblicati per il web e che abbiano anche una rete di collegamenti non solo digitali, ma anche concettuali. Il Web Writing è una tecnica di scrittura particolare, specifica, quasi settoriale. Nella grande rete si trova di tutto e sta un po’ ad ognuno di noi selezionare con cura . Se leggete questo web-magazine con regolarità però siete già a buon punto.