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di Cinzia Colella
Andy Warhol torna a Roma a due anni dalla mostra “Headlines” che nel 2012 aveva restituito al pubblico la sua geniale natura di visionario e di attento contemporaneo. Dal 18 aprile al 28 settembre 2014 al Museo Fondazione Roma, Palazzo Cipolla,
sarà presente “Warhol” con 150 opere dellʼartista americano, provenienti dalla “The Brant Foundation” di Peter Brant.
“La mostra – scrive Francesco Bonami, che ha collaborato come curatore – è unʼoccasione rarissima per il pubblico di poter vedere uno dei gruppi di opere più importanti dellʼartista americano (…) raccolto non da un semplice, per quanto appassionato, collezionista ma da un personaggio, Peter Brant, intimo amico di Warhol con il quale ha condiviso gli anni artisticamente e culturalmente più vivaci della New York degli anni ʻ60 e ʻ70”.
Giudicato spesso dalla critica e da alcuni colleghi come un artista commerciale – piuttosto esplicito il commento di Jannis Kounellis che disse di lui: “…è un idiota senza talento, è un pubblicista e non un artista” – il padre della pop art ha invece affermato un concetto democratico dell’arte. Con lui l’arte si presenta come una realtà condivisibile da tutti. “Non ti preoccupare, non c’è niente che riguarda l’arte che uno non possa capire” ripeteva parlando delle sue opere ed è esattamente così, perché non c’è niente di più comprensibile di una bottiglia di Coca-Cola o di una scatola di zuppa Campbell. Era desideroso di creare immagini nelle quali potersi facilmente identificare ed il suo non è stato un tentativo snob di umiliare l’arte, ma una volontà di trasformare in arte la vita quotidiana.
Nascosto sotto questa apparente superficialità, ha però reso tangibile, con lucida lungimiranza, anche l’aspetto sociale di una vita contaminata dalla serialità, dalla massificazione e dai mass media che sfocia nell’ossessione latente della fama e della riconoscibilità. Un atteggiamento sempre più esasperato e che oggi trova la sua massima estremizzazione iconica con il selfie: un semplice scatto che legittima secoli di riflessioni sul dasein, l’esserci.
Il percorso della mostra si avvia negli anni Cinquanta, quando Warhol debutta nella commercial art e presto lavora come illustratore per riviste prestigiose (da “Harperʼs Bazar” a “New Yorker”) e come disegnatore pubblicitario. E proprio dal lavoro per un famoso negozio di scarpe trarrà lʼidea delle scarpette a foglia dʼoro che aprono l’esposizione insieme ad alcuni esempi di blotted line, con quel tipico segno gracile e interrotto, frutto del caso più che della volontà dellʼautore.
È una coloratissima e precoce Liz del 1963 a introdurre alla sala successiva dove si annunciano le prime “Campbellʼs Sup e Coke”, insieme a “Disaster”; ci sono due splendide Marilyn, una del 1962 – lei appena morta – e una delle 4 Shot Marilyn del 1964, (i dipinti trapassati in fronte dal colpo di pistola sparato in studio da unʼamica del fotografo Billy Name).
Idolo creatore di idoli, non mancano le sue celebri icone: le “Brillo Box” e i primi “Flowers” (1964) esposte a suo tempo nella prestigiosa galleria di Leo Castelli come se fossero sgargianti carte da parati; ci sono poi i “Mao” (1972) con i quali Warhol inaugura una nuova pittura meno neutrale e più gestuale, le “Ladies and Gentlemen” – la serie dedicata alle Drag Queens di New York – e un gran numero di “Skulls”, i teschi che dal 1976 in poi si moltiplicano nel suo lavoro ispirato da simboli più universali.
Unʼintera sala è dedicata alle polaroid, una sorta di gotha della New York anni ʻ60: la fama era del resto unʼossessione di Warhol e non a caso fu lui a coniare la famosa, e terribilmente profetica frase, sempre citata e spesso storpiata “15 minuti di celebrità” a cui in futuro nessuno avrebbe rinunciato.
Non mancano “Oxydation” (1978) e un immenso “Camouflage” del 1986, stesso anno della serie in cui rese omaggio a Leonardo Da Vinci con “Last Supper”, che conclude la mostra.