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Omaggio ai primi sessant'anni di Radio 3

Di Mariano Colla

Forse il mondo dei “media” non ha dato particolare enfasi all’evento, credo sfuggito ai più,  ma circa un mese fa la RAI ha celebrato i sessantanni di vita dell’allora  Terzo Programma Radio. Negli anni 50 erano già attive altre due reti, Rete Rossa e Rete Azzurra, ma la nuova emittente nasceva con chiari intenti culturali, raffinati e tematici. In occasione delle celebrazioni per la ricorrenza, il direttore di Radio3, Marino Sinibaldi,  ha espresso il senso della radio, quale veicolo di comunicazione che supera le mode e le irruzioni delle nuove tecnologie, e ha usato parole quanto mai attuali : “Le foto e la radio limitano la propria percezione a un solo senso, rispettivamente la vista e l’udito, così non vengono saturati gli altri e questo lascia spazio al lavoro dell’immaginazione che è essenziale, è un valore etico, estetico e politico”.

Sessantanni fa la radio veniva ascoltata nell’intimità delle case,  su corposi apparecchi in radica di noce, posti sui mobili del salone o della cucina, e le  stazioni venivano selezionate con cura, grazie alla fine meccanica delle manopole in bachelite e al lento spostamento di una minuscola asta che scorreva sui nomi delle città, da Pechino a Shangai, da Mosca a Rio de Janiero, da Giakarta a Bonn,  prestampate su frontalini degli apparecchi, alla ricerca, in onde lunghe o corte, delle molteplici voci del mondo. Magie lontane, in buona parte scomparse. Oggi il traffico delle grandi città divora ore della nostra vita, causandoci stress, insofferenza, violenza e, intrappolati tra vetture di ogni tipo,  ritroviamo nella voce della radio, a volte gracchiante, a volte sontuosamente emessa da costosi impianti stereo, una certa simpatia, una benevola sensazione di relax, l’impressione di riappropriarci di una dimensione più intima  del nostro tempo, altrimenti violata, frastornata, confusa. Prigionieri nel nostro abitacolo, la radio sa rappresentare uno strumento di rapida evasione.

“Tornando a casa”, parafrasando una nota trasmissione radiofonica di Enrica Buonaccorti,  per un po’ ce la scordiamo, assorbiti dai mezzi del nostro tempo, gli avvenieristici TV al plasma o LCD , Internet super veloce, IPOD, IPAD, ma la radio è sempre lì, con l’estremo fascino della sua presenza discreta, una rarità nel mondo della moderna comunicazione. Il Video e i suoi chiassosi protagonisti esaltano atmosfere rumorose e invadenti , la radio è la regina del “soft”, di una morbidezza  e levitàcomunicativa che agevola la  concentrazione, l’apprezzamento  della  parola, della  voce e delle  sue molteplici sfumature.

In questi giorni la televisione ci ha giustamente coinvolti nella tragedia della lontana Indonesia, colpita da un devastante terremoto e dall’eruzione del vulcano Merapi. Le immagini sono entrate nelle nostre case e, ove possibile, hanno lasciato nei nostri occhi le testimonianze visive del paese martoriato. Ebbene, un paio di giorni dopo il dramma, nel corso della trasmissione radiofonica Baobab, è stato stabilito un collegamento telefonico con il giornalista  Vincenzo Giardina, corrispondente dall’Indonesia dell’agenzia stampa missionaria MISNA. Un fruscio dava la sensazione della distanza nella comunicazione. La voce stessa del giornalista tradiva la presenza di disturbi in linea quasi fosse un collegamento di emergenza . Era una voce lontana, isolata rispetto al circo televisivo, ma in essa avvertivo l’emozione, il senso della catastrofe, il dolore. Le isole Mentawai, teatro del cataclisma, situate a circa 150 chilometri dalla costa di Sumatra, emergevano dal racconto, remote, difficilmente raggiungibili. Nella parola c’era il la descrizione della tragedia. L’immaginazione dell’ascoltatore ricostruiva  i contorni reali della devastazione. Dunque la radio, sopravvissuta alle evoluzioni mediatiche,  sembra ritrovare vitalità e spazio, grazie a un ruolo equilibrato e poco invasivo, recitato nella nostra complessa e stressante quotidianità. Dietro le voci di attori, conduttori, presentatori, ascoltatori, si nascondono  volti, spesso anonimi, “travet” della radio che, tuttavia, non devono subire la violenza dell’inquadratura,  delle potenti luci di scena, non devono imbellettarsi per apparire gradevoli alla vista in un mondo sempre più guidato dall’apparire e, forse, proprio per questo, sanno valorizzare gli aspetti più intimi della comunicazione.

Vi è una trasmissione notturna dal titolo “Uomini e camion” che, già nel nome,  evoca il mondo ruvido degli autotrasportatori, uomini che viaggiano nella notte, che percorrono le strade addormentate delle città e dei paesi e che trovano,  nella debole luce del frontalino della  radio incassata nel cruscotto di guida,  una voce che parla con loro o che li ascolta. Nell’era di Internet, delle “social community”, dei “talk show”, del “ Grande Fratello”,  la radio lotta per continuare a ritagliarsi il proprio spazio vitale e lo fa con stile, con garbo, come una vecchia signora della buona società che, con fascino, sa intrattenere figli e nipotini con storie a lieto fine. W la radio, dunque.

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