di Lidia Monda
Parlare del primo premio Strega non è per niente facile. In linea teorica, se fior di critici, al netto di tutte le polemiche del caso, l’ha giudicato il migliore, non resta più molto spazio per ogni altro commento.
E invece no. Una volta esaurito il giudizio della critica letteraria, tocca poi a noi lettori decretarne le sorti, tanto più che, tra i diritti di cui siamo fieramente -ferocemente- consapevoli, vantiamo quello non solo di giudicare il libro, ma anche di consigliarlo o meno a secondo dell’indice di coinvolgimento.
“La ferocia”, scritto dal quarantaduenne Nicola Lagioia e pubblicato da Einaudi, diciamolo subito, non è un libro facile. È una sfida all’impazienza nelle prime cento pagine, ed è solo arrivati alla fine che se ne comprende il motivo. Il libro ha bisogno di accomodarsi per bene nel nostro immaginario, di istruire, di tracciare le coordinate di un mondo, oltre che di un lessico, in modo che, giunti alla fine, basterà anche un solo cenno per farci orientare e intuire al volo ciò che ormai è divenuto familiare.
Con una scrittura densa, vischiosa, cerebrale Lagioia ci fa entrare nella sua realtà con il morboso fascino di una pianta carnivora che si lascia ammirare per il suo intrigante lato estetico, e poi ci tira giù, all’interno del libro, nei pensieri reconditi di ciascun personaggio.
Dagli anni ’70 a oggi si dipana la storia della famiglia Salvemini, il cui capostipite, Vittorio, è un costruttore, ricco, influente e privo di scrupoli, che si fa largo a spallate nel corrotto mondo dell’edilizia. La vicenda ruota intorno alla misteriosa morte di Clara, figlia secondogenita dell’imprenditore, fragile e magnetica, che appare in un unico fotogramma iniziale, per poi essere ricostruita, tassello dopo tassello, nei ricordi e nei rimorsi di chiunque l’abbia incontrata, senza mai riuscire, neppure quando si tratta dell’inquieto e prediletto fratello Michele, a esser compresa fino in fondo. Ed è proprio il continuo cambiamento di prospettiva, unito al calarsi nell’intima sfera di ciascuno dei protagonisti, che sembrerebbe fare di Lagioia uno scrittore ‘cinematografico’, per la molteplicità d’immagini che proietta sul nostro schermo interiore. Ma l’autore va oltre la mera inquadratura, utilizzando fino in fondo la sua penna, che a tratti diviene bisturi e a tratti cesello, arrivando a vestire ogni personaggio con una scrittura e persino con una punteggiatura diversa, riuscendo così a scandagliare in profondità i moti dell’animo e a farci comprendere perfettamente le motivazioni di ognuno.
Qui, infatti, a coinvolgere non è tanto la dinamica della trama, ma le dinamiche nella trama, intese come cause ed effetti di rapporti sotterranei, che scavano nei personaggi ferite profonde in grado di salvarli o distruggerli del tutto. Su di esse si costruisce l’intera impalcatura del libro, che sembra quasi pretesto per parlar d’altro, talvolta scivolando sulla maniacale ricerca del termine perfetto (a scapito di una certa immediatezza), talvolta sublimandosi in immagini vividissime, talvolta invece zoomando sul dettaglio fino a farlo assurgere a metafora di un intero profilo psicologico.
Scevro da ogni buonismo, asettico nelle sue prospettive, implacabile nel tratteggio dei protagonisti, Lagioia proietta su carta stampata la sua versione de “Il Capitale Umano”, in cui la distorsione tutta borghese della scala di valori vede nella ferocia il valore aggiunto dello stare in società, o addirittura, più spudoratamente, lo strumento essenziale di sopravvivenza del viver quotidiano.