di Antonietta Molvetti
San Francesco al Campo, Torino. Parte di una scolaresca è sospesa dalle lezioni dopo aver diffuso, in una chat di WhatsApp, foto e filmati di alcuni professori, commentati con toni di dileggio.
Storia di una ordinaria malefatta, non così degna di attenzione se non fosse sopraggiunta la difesa sconsiderata dei genitori. In un fronte unito e compatto, infatti, mamme e papà, invocando la tutela alla privacy– violata, a loro dire, dall’insegnante che ha controllato i cellulari- sono intervenuti chiedendo la revoca del provvedimento punitivo, disposto per una semplice “bravata”.
La prima argomentazione sembra, francamente, irrilevante. Si fa fatica ad attribuire una tutela della riservatezza piena a ragazzi di tale fascia d’età.
Ispezionare il contenuto di un telefonino, per altro introdotto in classe in dispregio dei divieti scolastici, può ben rientrare tra gli strumenti correttivi concessi all’insegnante nell’esercizio del suo compito di precettore.
Fuor di dubbio che un tempo, convocati in una simile circostanza dalla preside, i nostri genitori avrebbero accolto la ramanzina a testa bassa e coda tra le gambe, riservandosi poi di impartire una sonora – oltre alle urla, anche gli schiaffi fanno un inconfondibile rumore- lezione di buona condotta all’amata prole.
Il metodo educativo basato sulla durezza e sui ceffoni è stato –giustamente- archiviato. Tuttavia quest’episodio sollecita una riflessione sulla palese e eccessiva indulgenza di certi genitori.
Ricordate Matteo Sangermano, il giovanotto che, intervistato sulla manifestazione del 5 maggio a Milano culminata in devastazioni di massa, aveva ingenuamente dichiarato “che fosse giusto sfasciare tutto”? Della vicenda aveva colpito- in verità- più della ingenuità del figlio, la reazione del padre. Il Signor Sangermano davanti al microfono di chi chiedeva un suo commento, bollò –sic et sempliciter– a mo’ di scusa, il figlio come “pirla”.
Tra il “pirla” e la “bravata” ci sarà una via di mezzo? Un corretto e consapevole uso del ruolo di educatore riservato al genitore, prima che giuridicamente, moralmente?
Il ragazzo ‘pirla’ lascia intravedere alle proprie spalle quasi una solitudine, motivata dalla mite arrendevolezza, dalla docile rassegnazione di un genitore che abdica al suo compito sociale. Come a dire: – “mio figlio così è, io che ci posso fare”.
Il ragazzino che si diverte a “far bravate” evoca invece, purtroppo, uno scenario più inquietante.
Conviene ricordare in primis che la parola “bravata”, lungi dal ricondursi all’aggettivo bravo, si aggancia piuttosto ai bravi di manzoniana memoria, consistendo, come si legge nel dizionario Treccani in un “atto o parole di millanteria provocatoria”. Quindi il gesto non di “bravura” bensì di “braveria” non è mai leggero. Può essere che sia fatto per ignoranza delle conseguenze che produce, ma con animo innocente, lo si esclude.
E’ necessario sottolineare poi, che i Bravi di Manzoni erano spalleggiati da un mandante potente e tracotante. Non vorremo lanciarci in giudizi affrettati, ma -spiace dirlo- questi genitori della vicenda torinese rischiano di dare di sé la medesima impressione.
Si impara più dagli esempi che dalle parole. E’ risaputo. Da questa storia i giovanissimi colpevoli –certo non di un peccato mortale- lungi dall’aver afferrato dove sta il loro errore, avranno capito solo che ad ogni sbaglio troveranno sempre i genitori disposti a fiancheggiarli.