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Per una notte figli del tempo. Tornano i Deep Purple a Roma

di Alessio Serrano
Roma, Palalottomatica. Ore 21.15 spaccate, quarto d’ora accademico incluso. Attesa che aumenta il desiderio, ma d’obbligo per tali maestri; perché i Deep Purple lo sono sul serio. downloadDei precursori di cui si dice che senza il Metal non sarebbe mai nato. Palazzetto quasi pieno, nel vero senso della parola. Gente di diverso tempo. Di un lasso temporale lungo almeno quattro decadi, stando alla cronologia. Gente di diverso tipo, nondimeno. Eppure tutti similmente accomunati. Tutti lì, alla stessa maniera, ad assistere ad una sorta di radiazione cosmica di fondo: un bel pezzo portante della storia del rock in differita. Una overture degna di Star Wars. Un teaser sonoro di qualche decina di secondo destinato a durare un bel pò di più dentro di chi bramava l’attesa.
L’inizio è di quelli aggressivi, graffianti. Di quelli che stai sì seduto sulla tua poltroncina numerata, ma che ti verrebbe da saltare di scatto e dare il via al “pogo”. Ci si accontenta tuttavia di muovere nervosamente la gamba in tensione come quella di un centometrista. Al tempo del ritmo, s’intende…. che manco nel giorno dell’esame della vita! Poi ti accorgi che non sei l’unico a farlo. Accade lo stesso per un ragazzino che avrà si e no un terzo della tua età e che pur tuttavia non è lì per caso; lo fa altresì una tardona di mezza età un po’ troppo “pariolina”, ma che all’epoca deve esser stata una hippie convintissima. E allora ti senti rassicurato, perché quella che stai ascoltando è Highway Star. Sul palco una band strepitosa senza bisogno di presentazioni a nessuno dei quali è negato il narcisistico assolutismo del proprio strumento. Quelle attenzioni che troppo spesso sono ad unico ed esclusivo appannaggio del frontman, the voice. Ma il buon Gillan, leader vero del gruppo che non lesina sprazzi di grammelot britannico nell’introduzione dei pezzi da suonare, lascia a tutti gli altri lo spazio che meritano. Spetta infatti a Morse iniziare l’autocelebrazione della chitarra che fu di Blackmore. Pesantissima eredità. Con l’estro di Paice alla batteria, poi, si tocca forse
l’apice di intensità e luce: download (1)il suo show personale è una fantasmagoria al buio di colori intermittenti sprigionati dalle sue bacchette al led. Ad Airey, dalle tastiere, invece, il compito di fa sentire come il suono dell’organo dia tridimensionalità ed innalzi l’hard rock di questa band ad un livello sublime. Airey è l’ultimo arrivato nella band, ma è anche tra i più grandi al mondo nel suo ruolo e anch’egli raccoglie una pesantissima eredità: quella del fu Jon Lord. Sul finire – last but not least – il profondo e toccante basso di Glover, elemento fisso assieme a Paice e lo stesso Gillan del gruppo del 1969 fino ad oggi. Il bis finale sulle note di Black Night ha avuto il clamore che si cercava e la notte è stata più nera del solito. E siamo sempre in UK; guarda caso. Fumo sull’acqua. Fuoco nel cielo. Per chi come me – figlio del tempo degli anni ’80 – non ha potuto fruire live di tutto questo fervore del rock e affini, poter avere un assaggio ora nel “lontano” 2015 dei riverberi di quell’hard rock primordiale suonato dagli stessi fautori, non ha avuto prezzo.

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