Sabato 16 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma, Stefano Saletti insieme alla Banda Ikona presenteranno il loro quarto lavoro discografico. “Soundcity“, un disco ricco di multietniche suggestioni che racconta, attraverso suoni catturati e raccolti in svariate città, dolore e ricchezze del nostro Mediterraneo. Per l’occasione Stefano ci ha raccontato come è nato questo progetto e cosa lo ha ispirato.
Come nasce Soundcity?
Dai concerti che ho fatto in questi anni nelle tante città di frontiera del Mediterraneo, da Tangeri a Istanbul, da Lisbona a Sarajevo, Jaffa, Lampedusa, Ventotene. Ovunque stavo, registravo delle voci, dei rumori, dei ritmi o delle melodie che poi mi hanno ispirato per la realizzazione dei brani. Il disco si snoda come un concept album: parte e ritorna a Lampedusa, simbolo delle contraddizioni della nostra epoca divisa tra accoglienza, integrazione e la creazione di nuovi muri. Si apre con una preghiera cantata in Swahili, la lingua dell’Africa Orientale, poi arriva in Turchia, dove il canto di una donna a Istanbul il 29 aprile 2013 viene interrotto dalla voce di un passante americano che sembra preannunciare una profezia: “Ci sarà del caos il 1° di maggio”… che si avvera con gli scontri di Gezi Park e la tragica morte del quattordicenne Berkin Elvan. Una tammurriata notturna a Ventotene, isola di confino e di frontiera, diventa un Padre nostro (cantato in sabir) alla maniera dei pescatori nei porti del Mediterraneo. A Jaffa una protesta di rabbini blocca la città. Sul porto di Tangeri a fine agosto centinaia di auto di migranti aspettano di imbarcarsi per tornare in Spagna. Il testo è ispirato a un brano tradizionale che dice: “Tu che parti, dove vai? Finirai per ritornare”. Insomma un affresco sonoro dove le strade del Mediterraneo risuonano di echi lontani e presenti e ci ricordano che da sempre sono tutte collegate: per mare e per terra.
Quali sono gli strumenti che suona nell’album?
L’oud arabo, il bouzouki greco, il saz turco, poi chitarre varie, l’ukulele in un brano, il pianoforte e tante percussioni. Mi piace confrontarmi con strumenti diversi, che raccontano tradizioni musicali differenti. Cosa significa cantare in Sabir? Significa cercare una lingua comune per i tanti popoli che si affacciano sul Mare nostrum. Il sabir era la lingua del mare, che univa francese, spagnolo, italiano e arabo. Mi piace pensare che di fronte all’abisso culturale che si è aperto negli ultimi anni tra le due sponde del Mediterraneo si possa rintracciare un filo comune che fa dialogare e incontrare le persone. Per questo lo uso nella mia musica, perché può essere capito in ogni parte del Mediterraneo.
Oltre a Barbara Eramo quali altri musicisti hanno collaborato al progetto?
Ci sono i musicisti che da dieci anni fanno parte della Banda Ikona, cioè oltre me e Barbara, Gabriele Coen, Mario Rivera, Carlo Cossu, poi tanti nuovi compagni d’avventura come Giovanni Lo Cascio e Arnaldo Vacca alle percussioni e tanti amici ospiti Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi, Nando Citarella, Gabriella Aiello, Jamal Ouassini, Yasemin Sannino, Awa Ly, Pejman Tadayon, Alessandro D’Alessandro, Giuliana De Donno, Emeka Ogubunka. Dal vivo ci sarà anche mio figlio Eugenio. Insomma, un grande ensemble mediterraneo che trasforma la Piccola Banda Ikona nella Banda Ikona.
Pensa che la musica possa favorire davvero dialogo e integrazione?
E’ fondamentale, come tutto quello che è cultura. In quest’epoca in cui si alzano nuove barriere e nuove frontiere dobbiamo mantenere dritta la barra del dialogo, dell’incontro. Mi chiedo spesso: ma che Europa è quella che non sa più accogliere altri esseri umani? Cosa siamo diventati, una fortezza blindata di banchieri mitteleuropei? E’ triste, per questo la musica, l’arte, la cultura hanno un ruolo fondamentale per continuare a illuminare le coscienze.
di Marina Capasso