di Stefania Taruffi
Premesso che i miei genitori mi hanno messo sugli sci a sei anni e che da allora faccio (almeno) una settimana bianca l’anno, anche in questo autunno, in prossimità del freddo e di una partenza in avvicinamento, mi trovo a fare le stesse riflessioni sul delicato argomento. Sarà che nonostante gli anni passati sugli sci, nessuno è riuscito a farmi innamorare del freddo e della fatica che provo ogni volta che vado in montagna d’inverno. Amo i paesaggi montani innevati e finché ero senza figli, riuscivo anche a trovare le energie necessarie per attraversare indenne quella settimana infinita. Poi è accaduto l’irrimediabile. Con due bambini in crescita, ogni anno occorre rinnovare completamente l’abbigliamento. Per non parlare del lungo viaggio in macchina deliziato da ore di lamenti, nausee e continue necessità alimentari o e fisiologiche. Per non parlare delle favole o le canzoni dello Zecchino d’oro, in onda per ore per deliziare i pargoli. Poi c’è il freddo e i bambini odiano il freddo. Affitta gli sci, prova cento scarponi per capire se calzano, insegna loro a camminare con quei pezzi di plastica ai piedi in bilico sulla neve ghiacciata, iscrivili alla scuola sci e finalmente arriva il primo giorno di lezione in cui già sogni due orette di libertà. Falso! Uno dei due bambini stai sicuro che piange perché non ci vuole andare e in genere ti ritrovi a passeggiare con lui per il paese deserto e noioso, ragionando sui motivi di questa ‘assurda’ mancanza di coraggio. Quando finalmente entrambi i figli si sono convinti di andare a lezione di gruppo, inizia la faticosissima corsa mattutina alla colazione/vestizione. Superata la prima, con lunghe soste al buffet, già in notevole ritardo, ci si deve vestire: per mettere tutti gli strati a ciascuno ci s’impiega una vita e guai a dimenticare i calzini, gli occhiali o i caschetti nella stanza: pena non trovi più nessuno alla paletta della scuola sci e passi tutta la mattina a rincorrere il maestro sulle piste, con figlio al seguito. Il tempo in montagna è sacro, ancora più che in città. Infilarsi tutti gli scarponi e riuscire a guadagnare un posto sull’eventuale funivia che porta agli impianti è un’altra impresa ardua. Pressati come sardine in una cabina di ferro non è poi il massimo, specie per i piccoli gnomi che si guardano intorno disperati e il cui sguardo perso sembra voler dire: ”Ma tutti questi giganti dove vanno?”.
Alla fine si raggiunge l’ambito traguardo della vetta, dove i maestri di sci attendono genitori e figli con un ghigno sulle labbra, che di solito non piace ai bambini che, guarda caso, proprio in quel momento si ricordano di dover andare in bagno. Sembra facile con tutti quegli strati d’abbigliamento! I bisogni primari in montagna dovrebbero diventare secondari, perché quasi impossibili da realizzare. Sospiro di sollievo. In realtà la vera vacanza dei genitori è racchiusa in quelle due ore di corso dei propri figli, con l’orologio in mano e solo percorsi brevi, che permettano di rientrare in orario per riprendere la ciurma. Poi arriva il pranzo. Le baite sono strapiene di gente affamata e anche quella meta è impegnativa, tanto da far passare la fame.
Certo è bellissimo osservare i fiocchi di neve appoggiarsi sui rami, ma di poetico, in tutto il resto, c’è poco. Gli alberghi pieni di bambini sono un concentrato di virus senza paragoni e certamente, qualcuno prima o poi se li prende, uno ma anche due o tre insieme. I virus montanari sono noti per la loro potenza e per aver uno spiccato spirito di gruppo. Allora è davvero finita! Il famigerato virus è di solito in cerca di tante vittime ed è ben felice di far ammalare entrambi i figli, ma non insieme, troppo facile. A distanza di due giorni, a catena. In modo tale da costringere uno dei genitori o entrambi, a turno, a restare chiusi nella stanza d’albergo tutto il giorno, tutta la settimana.
Finita la vacanza ce ne vorrebbe un’altra per riprendersi!. I genitori appassionati di neve, che intendono tramandare la pratica di questa disciplina e l’amore per la montagna ai propri figli, sono dei veri e propri eroi. E il risultato non è poi neanche garantito. Capace che i figli, come me, non vedano l’ora di attaccare gli scarponi di plastica al chiodo e sognino un atollo in cui girare scalzi e in pareo, al caldo tepore dei tropici. Dove anche i bambini, secondo me, sarebbero più sereni. E poi, c’è sempre lo sci d’acqua.
Foto in licenza CC: Daniele Romagnoli