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Captain Fantastic e l'armonia delle contraddizioni

Ringrazio con tutta me stessa la professoressa di Scienze Umane di mio figlio per avergli dato un compito così: andare al cinema a vedere questo film. Ci siamo andati tutti e 4 e forse il piacere è stato più mio che suo. Nonostante fossi seduta in prima fila (orrore!) e nonostante dietro di me ci fosse un uomo con una tosse da esorcismo…il film mi ha completamente rapita e catapultata in una dimensione armonica fatta di bellezza, significati e riflessioni. Sono tante le cose su cui riflettere, davvero tante.
La trama di per sé è semplice: una famiglia compie una scelta di vita alternativa e indossa un modus vivendi “hippie” e borderline rispetto al capitalismo occidentale che ci fagocita insieme ai suoi meccanismi “stritola valori”. Una scelta estrema, a tratti selvatica. Vivere in una foresta a stretto contatto con la natura. Una natura rude e feroce che ti mette a dura prova e ti chiede di saper resistere senza comodità, ma allenando il potenziale: fisico e intelligenza. Cibo da procurarsi con la caccia mettendo da parte emozioni quali la pietà, la pena e la repulsione verso i bottini da scuoiare e da sventrare. Pareti di roccia da scalare. Cascate gelate. Acquazzoni improvvisi. Sentieri e salite. E soprattutto la totale assenza di trastulli tecnologici, di pubblicità, di marketing, di messaggi subliminali, di contaminazioni politiche, religiose e intellettuali. Una vita intesa in totale purezza con un integralismo che può sembrare estremo ma che fa cogliere il succo della vita stessa: essere. L’intento di questi due genitori è proteggere i 6 figli dalle seduzioni fasulle e artefatte di un benessere che per loro è solo apparenza e non sostanza. Proteggerli dalle stratificazioni e dalle maschere del pensiero borghese. Proteggerli da tutto ciò che sporca l’essenza e fa di noi dei “burattini” istruiti dal sistema per arricchire il sistema…credendo di fare la cosa giusta.
La vita nella foresta è dura, ma anche dolce. La “ruvidezza” della natura e dell’allenamento quasi militare del padre si mescola alla dolcezza della complicità e dello spirito di squadra. Nonostante la fatica si respira gioia, gioia vera anche se non mancano, come in qualsiasi famiglia, accenni di ribellione e sbotti di nervi-ma alla fine si torna sempre a quella gioia che comprendi “soltanto dopo le cose”. Come passano il tempo questi ragazzi al di là dell’allenamento fisico e della caccia? Leggono. Leggono tantissimo. Leggono libri suggeriti loro dal padre. E sanno fare musica, sanno farsi orchestra e creare ogni volta parentesi meravigliose. Non pensateli selvaggi, no. Sono bellissimi ragazzi dalla pelle color latte e dagli occhi di cielo e soprattutto hanno una cultura pazzesca. Quella cultura che non nasce sui banchi di scuola tra noia e obbligo e sforzo mnemonico ma che è cosa viva, capita dal di dentro, sentita dal fondo dell’anima, introiettata, assorbita, “presa in carico”.
Accade poi che la madre (che non si vede mai sulla scena), ricoverata da mesi per disturbi psicotici e bipolari sviluppati dopo uno dei parti, si tagli le vene in ospedale. Questa morte a cui tutti reagiscono con grida, pianti e pugni e coltellate contro il muro, si pone come elemento di rottura col loro mondo “a km 0” nel cuore della natura. Questa morte fa da spartiacque e crea un prima e un dopo, porta a galla i conflitti e gli estremi del vivere. La mamma, prima di morire, aveva raccolto le sue volontà facendo testamento. Era buddista, lontana da ogni istituzione religiosa organizzata, lontana da ogni formalismo ed etichetta. Nelle sue volontà chiede di essere cremata e di essere gettata in un wc e portata via dallo sciacquone. Sembra macabro, forse, da leggere e invece qui c’è il nodo più potente di tutta la narrazione cinematografica: essere fedeli alla volontà di chi si ama. Amare attraverso il rispetto totale dell’altro. Lo scontro tra i due modelli di vita emerge proprio davanti all’ultimo saluto. La famiglia d’origine di lei- religiosa, ricca e borghese- esige un funerale canonico in chiesa e una normale sepoltura in terra. Suo marito e i suoi figli vogliono, invece, aderire alla sua volontà di donna e di persona
  e onorarla mantenendo fede a una promessa. La necessità dell’ultimo saluto e della relativa frattura familiare portano sulla scena diversi momenti di confronto che aprono al dibattito e alla riflessione: si può affermare con sicurezza che esista un modello di vita, educativo e culturale, più valido di un altro? Siamo sicuri che il nostro modello d’istruzione occidentale e che la forma della nostra società siano davvero l’unica via?  Questo film, in quanto film, ci pone davanti a due modelli estremi che andrebbero analizzati e contestualizzati ciascuno coi propri “pro e contro”. 

Io l’ho trovato un film drammaticamente poetico, ma anche lieve nella sua densità e nel suo spessore. Un film capace di lirismo sottile condito da momenti di pura commedia e di comicità intelligente e mai sgraziata. L’ho trovato un inno al gusto per la verità. Quella verità di cui siamo diventanti disonesti trafficanti. Quella verità che troppo spesso imbottiamo come tacchini per il giorno del Ringraziamento. La condiamo con le nostre fragilità e con l’illusione, tutta umana, che, così mascherata, faccia meno male.
Significativa e perfetta la cena a casa della zia (sorella della madre), di suo marito e dei due figli. Da una parte si coglie il “saper stare” e l’omissione tutta borghese, dall’altra parte-invece- si percepisce la coloritura verace di chi le storie non se le racconta mai. Da una parte si cerca di mascherare il suicidio della zia spacciandolo per conseguenze naturali della malattia al fine di non turbare i ragazzi, dall’altra parte con molta chiarezza e quasi serenità si dice “si è tagliata le vene”. E se quel modo sincero dovesse apparire brutale a certuni, si pensi che in realtà è salvifico e sano perché ogni negazione, ogni verità troppo edulcorata impedisce di crescere e di prendere coscienza e di elaborare davvero nel profondo.
Impossibile per me, da spettatrice, non fare il tifo per la famiglia hippie- pur comprendendone la surrealtà e pur con la consapevolezza dei rischi assurdi di una vita così. Eppure, per tutto il tempo, il mio cuore ha esultato non tanto per il modus vivendi, ma per l’autenticità che esprimevano col loro vivere. Ho respirato a piene narici qualcosa di limpido che in un certo senso abbiamo perduto. E le cose limpide, si sa, possono essere tra le più “feroci”- in quanto prive di additivi chimici risultano “potenti” e aggressive per chi, come noi, ha una vita sempre più OGM in tutti i sensi possibili.
Sarà che, per come sono fatta, subisco il fascino di chi riesce a rimanere integro, di chi riesce a rimanere fedele a se stesso, di chi riesce a non farsi contaminare troppo per quieto vivere e soprattutto di chi riesce con grande sapienza e umiltà a conciliare ciò che pare inconciliabile.
Impossibile, ad esempio, rimanere imparziali davanti al confronto tra i cugini: due ragazzotti firmati Adidas, dipendenti dai giochi elettronici, capaci solo di deridere e di alzare il dito medio, ma che davanti alla domanda “parlami della Carta dei Diritti” non sanno cosa rispondere se non bofonchiando qualche banalità, e dall’altra parte una bimbetta di 8 anni cresciuta nella foresta, ma che sa snocciolare con cognizione di causa e, soprattutto, con passione totale i suoi contenuti e la sua importanza. Qual è quindi la vera cultura? Quella di un titolo di studio in una scuola prestigiosa o quella animata da vero interesse? E’ possibile discriminare la cultura solo in base ai dictat della nostra società o forse la cultura e l’istruzione andrebbero riviste e rese “vive”? Esiste un solo modo per “fare scuola”? O si “fa scuola” ogni volta che ci anima una motivazione profonda?
Un altro momento che potrebbe sembrare dissacrante e che risuona dentro in maniera molto forte e, invece, risulta unico e prezioso è quando la colorita famigliola va a disseppellire la mamma per esaudire il suo desiderio. Portano via la bara di nascosto ricomponendo la terra fresca sopra. La aprono sul loro furgone di nome “Steve” e mentre la strada corre veloce, si scorgono i volti dei ragazzi che ammirano la propria mamma, bellissima, e la accarezzano con gli occhi prima di salutarla per sempre. Un fotogramma dolcissimo e lieve nonostante la tragicità in sé della cosa. Arrivati vicino al mare e dopo aver costruito una struttura di legno( una specie di altare) su cui hanno appoggiato il corpo della madre avvolto da un lenzuolo bianco, la salutano ciascuno a proprio modo. Il marito depone piccoli fiori e una piuma e le dice “Ciao Uccellino! Vedi, questo naso è il mio naso. Questa bocca è la mia bocca sì, ma io sono tuo. Io appartengo a te.” Poi, tutti insieme, padre e figli, appiccano il fuoco e mentre il fuoco sale- loro intonano la canzone della loro mamma. Una canzone dolcissima il cui ritmo avanza, nota dopo nota, fino a che non si ritrovano a danzare e a suonare tutti insieme come un girotondo d’amore. Una scena dal lirismo perfetto che ci suggerisce di come la verità, anche la peggiore, possa essere mutata in un inno alla vita e quasi in una festa di luce se aderisce a un progetto di amore autentico. Nella finzione e nel contenimento formale, invece, si perde di vista il nucleo di tutto e si rischia di scivolare nell’opacità funesta e monocorde.
E ancora quando, sempre tutti insieme, portano le ceneri della madre in un bagno pubblico, le gettano nel wc, tirano l’acqua  e, ridendo, dicono in coro: “ciao mamma!”. Quanta potenza in quel saluto divertito, quanta! La potenza di chi ha elaborato dentro di sé una cosa brutta e l’ha resa bella grazie allo spirito di squadra e, ancora una volta, all’autenticità. Questa mia considerazione non è certo un invito a buttare le ceneri dei propri defunti là dove capita, seguendo qualsiasi desiderio atipico e non è nemmeno un applauso al gesto in quanto tale, ma all’emozione che ne deriva e che ho percepito in maniera nitida.
Però, c’è un però. Siamo liberi ma mai del tutto. Siamo liberi finché non urtiamo troppo i recinti del sistema. Siamo liberi fino a quando non siamo responsabili di altri esseri umani e se non ti comporti conformandoti, rischi -da genitore- che ti vengano tolti i figli. Mia domanda: siamo sicuri che sia più grave e limitante non sapere cosa sia la Coca Cola (che ci uccide silenziosamente) o cosa sia Star Trek  rispetto al non sapersi orientare di notte osservando le stelle e al non saper vivere senza negozi e supermercati e al non saper ricomporre una frattura ossea? Chi ha più possibilità di sopravvivenza e di gioia piena: il conformista o il capitano fantastico? Chi ha più possibilità di “problem solving” nelle cose della vita? Esiste un’unica risposta o forse le risposte sono tante e piene di “se e di ma”? Forse la risposta è nel finale, nel nodo che si scioglie nel “compromesso”: una casetta in campagna. Una casetta in cui si agisce e si vive con una visione etica e biologica delle cose (il furgone è diventato un pollaio pieno di uova freschissime). Una casetta che è nella società, con le regole della società ma senza esserne travolta. Una casetta da cui i figli possano prendere il pulmino per andare a scuola. Una casetta che è sul confine tra ciò che è conforme e ciò che è autentico. Una casetta, solo un poco defilata, che ci chiede di essere funamboli, equilibristi sul filo di questo circo immenso che è la vita. Tra essere e “apparire”. Tra essenza e presenza. Tra regola e possibilità. Tra lavaggio del cervello e libera scelta.
In ogni caso, da qualsiasi parte si scelga di stare: “Noi siamo famiglia.” E da lì tutto accade e tutto dipende.
Sono certa che questo film riesca a suscitare emozioni molto diverse e, magari, anche una sorta di fastidio violento. Entrambi i due modelli proposti, proprio in quanto estremi, sono fallibili, imperfetti e mancanti di qualcosa e non può esistere una verità assoluta né nell’uno, né nell’altro. Come gli estremi, ciascuno tende a un’esagerazione che rischia di divenire “patologica” e fuorviante. Se durante la visione del film, io cattolica e “borghese a modo mio”, ho fatto il tifo-emotivamente parlando- per la famiglia hippie, ciò non vuol dire che, razionalmente, io ritenga  rappresenti il modello di vita ideale. E nemmeno penso sia totalmente fasulla e sbagliata la visione più “normale” e borghese delle cose. Credo che la “normalità” nasca proprio dall’unione di queste due facce della medaglia, dalla fusione di valori autentici “messi su strada” e da un bel pizzico di grano salis. Non vedo alcun giudizio in questo film, ma vedo piuttosto una scelta stilistica che fa uso dei contrasti forti per creare rumore dentro e per guardarsi dentro, a fondo. Non sfugge a uno sguardo attento quanta dolcezza ci sia, in realtà, anche nei nonni “convenzionali” e negli zii. Credo che la bellezza di questo film sia proprio nella misura con cui ciascuno esprime la propria anima. C’è spazio per ogni mondo interiore e per ogni riflessione. A volte, nella vita, per trovare soluzioni basterebbe una cosa soltanto: darsi la mano e incontrarsi a metà strada nelle divergenze. Dosare bene gli ingredienti per avere un risultato finale soddisfacente. Di sicuro la vita è faticosa per tutti in egual misura e se il film, per ragioni di scelta stilistica, disegna pennellate rosse e nere inconciliabili- nella vita fuori dallo schermo sappiamo tutti quanto siano salvifiche le sfumature. Meno abbaglianti forse, ma sincere e capaci di raccontare quello sforzo umano del provare a “tenere insieme tutto”.
di Cecilia Mazzeo

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