di David Spiegelman
Il principe delle favole festeggia ogni giorno il compleanno, perché nelle favole il tempo non passa mai, fa il giro attorno a se stesso e quando parte è un modo di tornare. Francesco De Gregori, per brevità chiamato Principe, fin da quando era un ragazzo con la chitarra e senza cappello, compie sessant’anni ed è una strana ricorrenza: era infatti un giovane vecchio quando ebbe a rivelarsi, nello studio IT di quel Vincenzo Micocci che avrebbe pagato con l’invettiva più tagliente della storia della canzone d’autore la scarsa fiducia in Alberto Fortis. Coltivava la sua fertile introversione, credeva che il mondo e gli altri fossero meno interessanti di quel che gli scorreva davanti agli occhi.
Conosceva le storie di ieri, perché portava il nome di suo zio, una delle vittime del regolamento di conti di Porzus, una delle pagine scure di una storia di riscatto civile: insieme con il Francesco De Gregori comandante vicario della brigata resistenziale azionista Osoppo, fu giustiziato dai fucilieri di una formazione partigiana filostalinista anche Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo.
Questa comunanza implausibile di anime antecedenti è forse una delle chiavi gnomiche confacenti all’orientamento nel lavoro di un intellettuale inclassificabile. Cantante o cantastorie, musicista, poeta, letterato, storico, attore con tanto di valigia: nei quarant’anni di carriera cominciata dopo la maturità al Virgilio, ha saputo volgere a proprio favore la massima per cui ogni autore vero si distingue per la capacità di saper creare i propri precursori. All’orecchio attento, il canto degregoriano contiene – nell’evidenza dell’uso combinato di chitarra acustica e armonica a bocca, più una voce pulitamente sporca – chiari riferimenti alla lezione di un collega nato romanziere e spinto, non senza personale recalcitranza, alla forma canzone come Leonard Cohen, figlio della diaspora ebraica come Robert Zimmerman in arte Dylan. Curioso come l’esordio discografico veda De Gregori affiancato da un artista forse il più distante nella struttura poetica e musicale: ad Antonello Venditti, malcelato seguace degli Elton John e dei Billy Joel, lo accomunava una incarnita romanità mai davvero fatta propria. Non ci sono infatti quasi mai città riconoscibili nei suoi versi, se non nella forma di falsi indizi, altrettanto sciaradistici del contesto.
Fin dal primo solistico “Alice non lo sa”, si disse che De Gregori fosse tacitiano, ellittico, allusivo, uso a dissimulare il significato di quel che cantava lontano dal testo, oltre il limite della cornice. Ebbe a subire anche il truce processo di un tribunale del popolo, che lo tacciava di impoliticità, negli anni in cui si credeva che le bombe molotov – come scriveva Wilcock – fossero un segno di giovinezza e non l’emblema del fascismo che è dentro il fascismo come nell’antifascismo: dire buonanotte fiorellino, disegnare uomini che camminano sui pezzi di vetro, foto in cui sorridevi e non guardavi, era empio, in un tempo che ammetteva soltanto la sottomissione dell’arte a una caricatura grottesca del realismo socialista già fossile nelle terre desolate d’origine. Erano giorni in cui i brigatisti rossi nascondevano nelle intercapedini dei covi non tanto i carteggi estorti di Moro, quanto cose di cui ritenevano doversi maggiormente vergognare di fronte alla propria rivoluzionaria coscienza di classe: i 33 giri di Lucio Battisti, borghese e forse anche un po’ fascio, per via di quei «boschi di braccia tese» che poi, a volerla dire tutta, era farina del sacco di Mogol.
Accusavano insomma De Gregori di non farsi capire, ma non è che il mondo attorno a lui – ostentatamente ignorato – fosse più comprensibile. A chiudere l’autoesilio dovette convincerlo Lucio Dalla, per un sodalizio artistico scaleno – tanto sfacciato e guittesco il clarinettista destinato a farsi compositore lirico, tanto goffo e timido il futuro produttore d’olio umbro – che funzionò a meraviglia, tanto da essere tuttora riproposto senza per questo tradire, a distanza di più di tre decenni in cui siamo cambiati tutti, la ferocia degli effetti del tempo.
De Gregori non è mai stato giovane e quindi faceva un certo effetto, la scorsa estate, sfoggiare un panama aragosta, all’ombra del monumento alla vittoria nella Grande Guerra, cantando insieme con Dalla uno standard giocoso di Louis Prima. Parlare di un personaggio come lui espone comunque al rischio di opacizzare la portata splendente del suo rimario, una ventina di dischi e alcuni gioielli regalati – “La valigia dell’attore” ad Alessandro Haber, “Sognadoro” a Mimmo Locasciulli, con la prima soggetta a riappropriazione, la seconda no – e altre apparizioni da non protagonista come in “Questi posti davanti al mare” di Fossati.
Di fronte a De Gregori, sale davvero il dubbio se i fantasticatori che cantano quanto abbiano immaginato in proprio possano definirsi o meno poeti. Lui ci aveva pensato da tempo, «i poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa». Ha raccontato la fine del tempo a ritmo di charleston, ha fatto volare la donna cannone accanto al pilota di guerra Saint-Exupery. Ha scritto la più bella canzone di sempre su un tema quasi inaccessibile agli artisti, per la sua ontologica banalizzazione, ovvero il calcio. Ha scritto “Atlantide” forse non rendendosi conto di che cosa gli fosse riuscito. Se un giorno non avesse imbracciato una chitarra, il mondo – un grande orfanotrofio – sarebbe più povero e noi, che ne siamo sbigottiti passeggeri, con lui. Ha ragione De Gregori: siamo venuti per niente, perché per niente si va. Il giorno dell’Apocalisse, se ci sarà permesso, se ci sarà il tempo, dei suoi dischi ci piacerebbe portarcene una decina almeno con noi, nascosti sotto la giacca, ché non venisse in mente a nessuno di sequestrarceli, a partire da “Rimmel”: bussola per molti di noi di una precoce senescenza, di una tardiva giovinezza mai davvero vissute.