di Paolo Cappelli
L’elezione di Barack Obama nel 2009 fece tirare un sospiro di sollievo, almeno a quelli che vedevano l’uscita dal tunnel della politica colonialista e imperialista della dinastia Bush. Fino a quel momento, l’Occidente aveva vissuto, in sequenza, la prima guerra del Golfo (1991), la tragedia delle torri gemelle dieci anni dopo e l’avvio delle campagne militari in Afghanistan (2001) e Iraq (2003). Negli ultimi mesi, il mondo sta assistendo a un’ondata senza precedenti di movimenti che potremmo definire, senza mezze misure, rivoluzionari. Questo perché la rifondazione di governi come quelli egiziano e tunisino dopo la cacciata dei rispettivi leader porterà a cambiamenti radicali, tanto nella struttura quanto nel modo di governare. La conquista della democrazia sarà il (probabile) risultato dell’intero processo, non solo per questi due paesi, ma anche per quelli immediatamente viciniori. Ciò su cui vale la pena di riflettere è se l’idealismo cui i paesi mediorientali hanno a lungo anelato e che l’Occidente ha fortemente sostenuto, si trasformerà in qualcosa di tangibile. Il fattore discriminante, in questo senso, è rappresentato dal sostegno degli attori esterni, in primo luogo degli Stati Uniti.
Per circa tre decenni sono stati proprio gli Stati Uniti tra i principali sostenitori di Hosni Mubarak, consentendogli di imporre lo stato di emergenza durante il proprio “regno”. Pur in una condizione che garantisce un certo laicismo, la speranza del conseguimento della libertà politica e della completa democratizzazione del paese è per il momento niente più che una pia illusione, vista l’intenzione del deposto dittatore di trasferire i poteri al figlio. È tuttavia difficile dire se l’America abbia gestito bene o male la questione egiziana. Se la cosa fosse avvenuta con tempi e modi diversi, si sarebbe potuta determinare una sterzata, per fortuna scongiurata dagli eventi, verso una società governata dalla sharia e la costituzione di una repubblica islamica sul modello iraniano.
Non c’è dubbio che gli Stati Uniti non abbiano fatto abbastanza: l’imposizione dello stato di emergenza per trent’anni è qualcosa che, politicamente, supera qualsiasi ragionevole livello di sopportazione. Thomas Friedman, uno dei più famosi editorialisti statunitensi e autorevole firma del New York Times, ha recentemente ribadito che: “negli ultimi 50 anni l’America, così come l’Europa e l’Asia, hanno considerato il Medio Oriente e i singoli Stati come distributori di carburante”, cui rivolgersi per fare il pieno. “Il nostro messaggio verso la regione è stato sempre molto coerente: voi tenete aperti i rubinetti e bassi i prezzi. Non vi preoccupate troppo degli israeliani e, per quanto ci riguarda, a livello interno potete fare più o meno come volete. Potete privare chiunque dei suoi diritti civili, lasciar dilagare la corruzione, predicare varie forme di intolleranza nelle moschee, diffondere teorie cospirazioniste sull’Occidente, rifiutarvi di educare le donne e i giovani e creare economie basate sul welfare state senza capacità di innovazione. L’importante è lasciare aperti i distributori, tenere i prezzi bassi e non dar fastidio agli ebrei”. (NYT del 25 febbraio 2011)
Per questo e per altri motivi che toccherò tra poco, l’atteggiamento degli Stati Uniti verso gli affari mediorientali si può definire opportunista. Quando la situazione nella macroregione è calma, non circolano voci né ufficiali né ufficiose. Quando invece si prevede un cambio negli equilibri, ecco che l’aquila alza la testa e supporta ciò che sembra tornarle utile. Non per questo l’approccio si può considerare sbagliato in senso assoluto, perché in fondo è un po’ nell’ordine delle cose lasciare che gli interessi di Stato prevalgano su tutto il resto. Ma piuttosto che cercare di prevedere il futuro del Medio Oriente in un momento caratterizzato da massima volatilità, è forse più opportuno riflettere sui possibili passi che l’Amministrazione Obama potrebbe intraprendere nei confronti dei rapidi eventi che si susseguono nella regione, adottando un approccio per l’appunto “regionale” e non affrontando le questioni come qualcosa di legato unicamente ai singoli paesi coinvolti.
Gli Stati Uniti stanno dando l’impressione di credere che nella vasta area che abbraccia la porzione di globo tra il Nord Africa e l’India si stiano sviluppando sette-otto crisi isolate che sono, certamente, legate in qualche modo, ma non in maniera decisiva. Quello che manca è una disamina relativa a quei fattori che rendono l’area una regione geostrategica e ai modi in cui le connessioni devono essere lette in vista dei possibili, necessari bilanciamenti. Ad esempio, come possono gli Stati Uniti avere una relazione aperta con l’India nel settore degli armamenti, cercando di aprirle la strada verso un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e allo stesso tempo dipendere dal Pakistan per garantire la sicurezza dei propri soldati in Afghanistan? Come possiamo pensare al loro ruolo nel processo di pace israelo-palestinese, mentre fanno finta di non vedere cosa succede a Gaza? E queste, si badi bene, non sono considerazioni a livello strategico.
Fortunatamente, mi viene da scrivere, il Presidente Obama, nel suo discorso del 2009 al Cairo, ha saputo rivolgersi al mondo musulmano offrendo una mano tesa e riportare a più miti consigli coloro i quali, nella sua Amministrazione, non vedevano Mubarak come un cattivo elemento e, anzi, lo consideravano a capo di un governo forte e stabile. Di nuovo fortunatamente, ha capito che gli Stati Uniti devono, mai come prima nella loro storia, schierarsi dalla parte giusta, o almeno da una parte che non possa attirare critiche in futuro. Da sempre dedita a partite geostrategiche degne del miglior campione di scacchi, oggi la leadership americana ha bisogno di un capo in grado di affrontare i problemi da un punto di vista più ampio. Ciò significa anche arruolare nei propri ranghi coloro i quali hanno una solida conoscenza dei meccanismi mediorientali e sono dotati della capacità di analizzare le diverse situazioni in maniera strategica, capitalizzando le conoscenze derivanti dalla grande mole di informazioni disponibili. Una sorta di leggenda metropolitana che da trent’anni circola nei corridoi della Casa Bianca vuole che tra le migliaia di dipendenti ci siano persone espertissime in settori specifici e d’immediato interesse (politica, cultura, storia, solo per citarne alcuni), ma anche che sia difficile identificarli e fare in modo che la loro voce arrivi ai decisori. Esattamente l’opposto di quanto avviene nei vecchi film a basso costo, in cui lo scienziato che ha sempre lavorato nell’ombra, combattendo con la penuria di fondi, finisce dritto nell’ufficio ovale a parlare con il Presidente e snocciola la soluzione che salva il mondo.
Un’ultima considerazione riguarda la riproposizione di una vecchia domanda: quali sono i veri interessi degli Stati Uniti nella regione? Non esiste una risposta chiara, ad esempio, nel caso dell’Afghanistan. L’atteggiamento prevalente sembra mettere al primo posto gli interessi dell’Unione, al secondo le politiche da adottare e al terzo le scelte che hanno origine ed effetti interni. Probabilmente è questo il motivo che ha portato gli Stati Uniti a reagire ai singoli eventi piuttosto che imbarcarsi nella concezione di una “strategia globale”. Il collasso dell’intero blocco sovietico colse impreparata gran parte della comunità strategica e politica statunitense. Lo stesso vale oggi per le rivolte in Africa e Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno quindi un’occasione storica per fare ciò in cui non sono riusciti in passato: creare una nuova strategia che, nel tempo, soddisfi gli interessi statunitensi e quelli di una comunità globale.
La sorpresa è ciò che ha sempre vinto sulla rigidità dell’approccio statunitense, da Pearl Harbor all’11 settembre: le capacità di analisi odierne, invece, non lasciano spazio alle giustificazioni. Ecco perché gli Stati Uniti hanno di fronte a sé un obbligo che è innanzitutto morale: quando sussiste l’esigenza ineludibile di un approccio diverso è necessario fare tutto ciò che è in proprio potere perché si possa metterlo in pratica, evitando poi di dire “non ci avevamo pensato”.