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Giro d'Italia: Weylandt, l'ultimo colpo di pedale

di David Spiegelmanweylandt

Quando una festa vira in un attimo al dramma, il contrasto è talmente forte che impone dolore e meditazione. Lunedì scorso, nel centro stampa di Rapallo dove decine di inviati seguivano il finale della terza tappa del Giro, era bastata l’immagine del volto sanguinante di Wouter Weylandt, soccorso da un medico che gli tagliava con il coltello il laccio del casco, per capire la portata di quel che andava compiendosi, anzi si era in tutta evidenza già compiuto. Il resto è stato pudicizia di un sistema informativo che per un’ora è andato ripiegandosi su se stesso, per impedire che la vedova del corridore fiammingo, morto sul colpo per la violenza della caduta, apprendesse dalla radio quanto era accaduto.

Su Rapallo è caduta una frana di ghiaccio, il clima da raduno degli alpini si è trasformato in sommessa recita di rosario per un omino con le ruote caduto nella pacifica guerra che i soldati del ciclismo combattono ogni giorno, ogni metro per portare allegria e ammirazione e anche felicità nella gente che quando passa il Giro esce di casa, sta ore e ore in attesa per vederli passare, imprimerseli soltanto per un attimo nello sguardo, conservandone il ricordo così come sulla retina rimane il disco abbagliante del sole guardato di sfuggita.

Nessuno che sia stato presente, all’arrivo di Rapallo, potrà astrarsi dallo smarrimento che ha colto tutti. E’ stato come quando durante il numero più difficile – e scendere a ottanta all’ora su un nastro di strada a cavallo di un sauro di metallo e gomma e plastica e grasso lubrificante è un numero senza rete perché sbagliare non è possibile – il trapezista manca la presa, e la banda smette di colpo di suonare, il tendone si svuota e la segatura sommerge il rosso cupo del sangue che si allarga sulla pista. Alla gioia per una giornata di festa, come tutte quelle che il Giro porta nelle città che tocca, si è sostituito il dolore perfetto, quello per una morte che come tutte non trova spiegazione.

Due sono le opzioni critiche assunte dopo il dramma di Weylandt. La prima, ovvia e incarnita per la banalità, comprende tutte le riflessioni tecniche sulle circostanze dell’incidente e sulla sua evitabilità. Pretendere di ridurre, se non di sterilizzare, il margine di pericolo di uno sport come il ciclismo, purtroppo, è puro esercizio di velleità: i corridori sanno benissimo di assumersi consistenti rischi ogni qual volta la strada smetta di salire, per riconvertirsi a discesa. Non a caso, una delle metafore più usate dai suiveurs, per descrivere un modo particolarmente ardito di affrontare le picchiate, è quella che oggi più che mai suona dolorosa e grottesca: «scendere a tomba aperta». I ciclisti ne sorridono, per esorcizzare quell’ombra che grava su ognuno di loro, un diavolo custode che li aspetta nelle forature, nelle volate, in un paracarro di granito come accadde a Fabio Casartelli, perfino nei binari del tram come fu destino di Serse Coppi.

Più giusto e riconoscente, verso la memoria di Weylandt così come quella di tutti i caduti della bicicletta, sarebbe riconsiderare l’intransigenza, talvolta confinante con il sarcasmo, che riguarda i purtroppo sempre più frequenti casi di pratiche non consentite, insomma il doping. Un’usanza che non riguarda soltanto il ciclismo, tanto che di risultati “strani” ormai è costellata ogni disciplina sportiva. Eppure nei confronti dei corridori colti in errore i toni, nei media come nell’opinione pubblica, sono spietati. E allora bisognerebbe rimeditare le parole di un ciclista che aveva sbagliato, e tanto, ma aveva pagato tutto e fino in fondo. «Ma andate a vedere che cos’è un ciclista» aveva scritto, nel biglietto di addio rinvenuto nella stanza dell’Hotel delle Rose di Rimini la notte di San Valentino, Marco Pantani, una delle tante vittime di uno sport bello quanto crudele, pura sofferenza distillata, dove ogni discesa è un giro di roulette tra la vita e la morte. Bisognerebbe che tutti andassero davvero a vedere che cos’è un ciclista, «e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con quei sogni». Come faceva Weylandt. E come fanno tutti quelli che sono saliti da bambini su una bicicletta, per farne il loro modo di stare al mondo. Fabbricando emozioni per quelli che stanno al bordo della strada, e dolori, e ricordi, e nostalgie. Fino all’ultimo colpo di pedale.

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