di Mariano Colla
“Luogo d’incontro e di scambio, il Dogon ha dato luogo a una produzione artistica ricca e multiforme che si è evoluta nel corso dei secoli e si è affermata soprattutto per le forme armoniose ed esteticamente moderne delle proprie sculture, maschere tribali, ed oggetti sacrali e di uso comune”. Così Helen Leloup, nel suo ruolo di commissario organizzativo, ha introdotto l’esposizione dell’arte Dogon presso il museo “Quay Branly” di Parigi, aperta dal 5 Aprile al 24 Luglio 2011 nella capitale francese. All’interno delle suggestive e moderne linee del “Quay Branly”, nuova e ardita struttura dell’architettura parigina creata per accogliere l’arte etnica, la mostra delle opere Dogon ha trovato gli spazi e le luminosità più idonee per esprimere l’eleganza e la modernità degli antichi manufatti del Mali. Sculture, maschere e oggettistica, dal X al XIX secolo, sono sapientemente riunite all’interno di zone circoscritte, ognuna caratterizzata dal periodo e dall’etnia che le hanno prodotte.
Il Mali, terra di migrazioni, guerre e incontri tra culture diverse, ha fatto nascere, a ridosso delle sue impervie “falaise” e dei suoi aridi e sinuosi altopiani, un’arte dalla profonda impronta simbolica. Una arte ricca e variegata dagli stili diversi, pur tuttavia armonici e raffinati, appartenenti alla moltitudine di etnie che in questa zona si sono incontrate o succedute. Erroneamente, per decenni, la denominazione Dogon ha indicato indistintamente tutte le produzioni artistiche provenienti dalla falaise di Bandiagara, poiché i Francesi, fin dai primi anni della colonizzazione, così indicavano tutti gli abitanti della falaise, senza distinzione, e adottarono il nome convenzionale di Dogon, che corrispondeva in realtà solo agli ultimi arrivati in quei territori.
La mostra, organizzata con gusto e competenza, si riferisce, quindi, non ai soli Dogon ma a molte delle etnie che li hanno preceduti nella stessa zona, ed è strutturata in tre sezioni: sculture, maschere e oggettistica. Per quanto riguarda le sculture, emerge una iconografia incentrata prevalentemente sulle figure umane: cavalieri, maternità, forme femminili, individui con le braccia alzate, ad invocare il dio “Amman” per una benefica pioggia, ermafroditi, simbolo dell’unione ideale dei due sessi. Su tutte sembra spirare il “nyama”, il soffio vitale che nella tradizione animista di quei popoli, palpitava all’interno di ogni cosa terrena. Stupisce e sorprende la purezza e l’essenzialità delle forme e delle linee. Traspaiono già dalle opere del XII e del XIII secolo i forti profili simbolici e stilizzati che l’arte occidentale ha fatto propri molti secoli dopo. Pur tuttavia tale avanguardismo non ha avuto una sua evoluzione nel tempo. Gli stessi stili si ritrovano, infatti, quasi immutati anche nel XIX secolo.
Sono opere incentrate sul rapporto uomo–dio, che, simbolicamente, richiamano la protezione del divino sui temi che da sempre affliggono l’uomo: morte, malattia, sterilità. Sculture che fanno ampio uso di legni duri, resistenti al tempo, che comunicano a distanza di centinaia di anni tutta la loro bellezza. Alcune di esse sono ricoperte da una patina rituale chiamata “croutense” che ne ha conservata intatta la superficie, le linee e gli intagli e che la luce ovattata dei “led” esalta, mantenendo intatto il caldo colore del legno.
La conoscenza dell’arte e della cultura Dogon è stata rivendicata a lungo dai francesi. Le prime importanti missioni etnologiche in questa zona dell’Africa risalgono, infatti, agli anni 30’, con Marcel Griaule e Germaine Dieterlen, che hanno portato alla luce molti dei reperti oggi in mostra. Il patrimonio di studio e di ricerca degli etnologi francesi ha contributo in modo determinante alla scoperta di una zona d’Africa dalle antiche tradizioni e culture. Ricerche che hanno consentito di esplorare lo spirito animista delle popolazioni del luogo, forte componente ispiratrice della oggettistica antropomorfa mediatrice tra l’uomo e le forze divine che agiscono sul suo destino.
Tra le varie etnie rappresentate in mostra, tutte ugualmente interessanti, citerei tuttavia l’eccezionale scultura Djennenke emblematica della continuità stilistico-iconografica tra Djennenke e Tellem e che indica un rituale comune tra i due popoli: in esso due braccia alzate originano dalla bellissima testa, e il collo diventa impugnatura per l’ostensione come vuole l’uso rituale di tutta la statuaria arcaica Tellem dai lavori estremamente stilizzati, con corpi simmetrici e schematici, senza ornamenti. La surreale iconografia delle braccia alzate che fuoriescono direttamente dalla testa arriverà fino ai Dogon, che la manterranno viva nelle loro sculture a distanza di secoli. E poi gli N’duleri, con opere particolarmente eleganti e raffinate, statuette che si caratterizzano per la forma inclinata degli occhi, messi in risalto dalle tempie rasate dei personaggi raffigurati. Seguono i Tombo, etnia che per il suo isolamento mantiene una indipendenza estetica che la rende unica rispetto a ogni altra tribù circostante, e poi i Niongom, considerati tra i primi abitanti della regione ai piedi della “falaise”. La particolarità del loro stile consiste nello sfruttare artisticamente le forme naturali dei rami degli alberi usati come materia prima. I Tintam, con le statuette ricoperte di una patina rosso–ocra, i Bombou–Toro, le cui opere riflettono la complessità e la ricchezza dei riti Dogon e i cui visi geometrici presentano delle radici prominenti e degli occhi a forma di losanga.
La purezza delle linee e la ieraticità di molte statuette appassionano; si percepisce la corrente animista che animava le abili mani degli artisti che le hanno ideate e realizzate; il loro aspetto non si perde in motivi ornamentali ma è invece una via verso l’essenzialità.
Di uguale intensità rappresentativa è caratterizzata la sezione della mostra dedicata alle maschere, anch’esse in gran parte provenienti dalle missioni etnologiche degli anni 30’. Rappresentano il senso del sacro e del coreografico, della tribalità e della ricca mitologia a cui gli indigeni sono legati. La morte è rappresentata in varie forme, nell’ambito di una complessa serie di riti funerari. La ricchezza dei legni policromi, degli intarsi, degli inserimenti di stoffe variopinte, testimoniano il forte valore simbolico delle maschere, peraltro tutte dall’aspetto inquietante.
La mostra si conclude con l’esposizione di un’ampia collezione di oggetti domestici o, comunque, impiegati in cerimonie familiari, più che in riti collettivi. Sono anch’essi oggetti di alta manifattura, che incorporano, pur nelle loro utilità, il simbolismo che caratterizza tutta la produzione artistica Dogon. Non si possono non ammirare esempi di serrature in miniatura, anelli, pendagli e collane in metallo, sgabelli, piccole urne funerarie, porte di legno intarsiate o a rilievo. Di particolare bellezza sono le coppe cerimoniali dedicate a “hogon”, capo spirituale, dignitario religioso spesso anche con autorità politica. Sono coppe in legno che assumono dimensioni considerevoli, anche 80 centimetri di altezza e 40 di diametro, ricche di intarsi e decorazioni sovrapposte, tutte di ottima fattura.
Chiudono la mostra dei pilastri intarsiati, residui di vestiboli sacrificali o sostegni del così detto “taguna “, la casa degli uomini, probabilmente luogo in cui si riunivano gli anziani del villaggio per delibare, giudicare e forse pregare. Come considerazione finale non si può biasimare l’arte contemporanea se con alcuni dei suoi esponenti si è volontariamente, o meno, ispirata alla essenzialità e alle purezza di linee dell’arte africana. La sensibilità dei Modigliani, Picasso, Brancusi, Giacometti, Marini, non poteva essere estranea a tale proposta. D’altra parte, proprio nel 1920, Jacques Lipchitz nel libro “Opinion sur l’art nègre” diceva: “Certo l’arte dei negri ci fu di grande esempio. La loro vera comprensione delle proporzioni, il loro senso del disegno, la loro percezione acuta della realtà ci ha fatto intravedere, osare perfino, molte cose”.