di Margherita Hack
E’ un libro sconvolgente, opera di chi in carcere è diventato un grande scrittore, che scrivendo riesce a sopportare quella morte al rallentatore che è il carcere a vita, l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”. Sono racconti in parte veri, in parte romanzati, che rispecchiano la violenza di chi ha potere su i carcerati e l’ansia di libertà, di giustizia, l’amicizia profonda che si stabilisce fra compagni di pena. Quando si legge di casi reali di giovani rei di aver partecipato a qualche manifestazione, o di aver reagito alla forza pubblica, che entrati in carcere in piena salute ne escono avvolti in un lenzuolo e con sul corpo i segni di pestaggi selvaggi, si vuol credere che si tratti di casi eccezionali, poi si pensa a quello che è successo durante il G8 a Genova e si comincia a dubitare. Il carcere che dovrebbe essere scuola di riabilitazione si rivela un centro di abbrutimento per i carcerieri e di annullamento della personalità dei carcerati a cui questi si ribellano con la violenza, carcerieri e carcerati egualmente vittime di un sistema degradante.
Leggendo questo libro ci si sente in colpa per avere avuto un’infanzia felice, una famiglia che ci ha protetto e aiutato a crescere e ci si domanda come saremmo stati se fossimo stati lasciati abbandonati a noi stessi, orfani o con genitori in carcere, o assenti, forse ognuno di noi avrebbe cominciato con qualche furtarello e poi sempre qualcosa di più grosso, fino a che, contro la nostra volontà, ci sarebbe scappato il morto e la galera.
Il bambino criminale – l’autobiografa della sua infanzia- diventa criminale per colpa di chi dovrebbe guidarlo nella vita; prima la nonna che lo incita a rubacchiare del cibo al mercato, mentre lei, chiacchierando distrae il venditore. Scoperto, si becca uno schiaffo dalla nonna- quante volte ti devo dire di non rubare- e poi a casa se ne becca un altro per essersi fatto scoprire, poi la maestra che lo sospende per dieci giorni per aver portato a scuola un gattino, poi, in seguito alla separazione dei suoi, il collegio, dove religiosi di poca carità cristiana incrudeliscono con punizioni sproporzionate per un bambino ansioso di affetto e di libertà. Questo tipo di educazione potrebbe costituire un manuale su “Come ti costruisco un criminale”.
Gli uomini ombra, invisibili e dimenticati da tutti , morti viventi, perché irreali come le ombre, eppure capaci di forte amicizia e altruismo come i quattro rinchiusi nella stessa cella, Tiziano figlio di un boss diventato assassino per l’obbligo di vendicare l’assassinio del padre, Pietro che aveva ammazzato la moglie e l’amante, Giosuè che aveva ammazzato una decina di persone che volevano ammazzare lui, e Nicola che viveva nel ricordo della moglie che lo aspettava da otto anni e non riusciva mai a vederlo. Era l’unico che aveva ancora una ragione per vivere. Per lui, perché lo trasferiscano al nord dove sarebbe stato più facile vedere ogni tanto la moglie gli altri tre dopo un tentativo di fuga fallito sono pronti a sacrificarsi. Finalmente Nicola può incontrare la moglie e gli altri tre sono finalmente liberi, le loro anime hanno lasciato i loro corpi martoriati di botte.
Le carceri italiane scoppiano. Molti detenuti non hanno nemmeno una branda o un materasso e dormono sdraiati per terra. Questo succede oggi nella civilissima Trieste. Molti dei detenuti non hanno compiuto altro reato che quello inventato da un governo razzista: il reato di clandestinità; molti altri sono poveracci che se fossero stati difesi da un bravo avvocato e non da un poco coscienzioso avvocato d’ufficio sarebbero fuori. Tutti avrebbero diritto a poter svolgere un lavoro, a studiare, a fare sport, a ricostruirsi un surrogato di vita, in particolare agli ergastolani, a coloro a cui la società dice: Lasciate ogni speranza o voi che entrate.
Spesso mi viene in mente un fatto di cronaca di qualche anno fa: Roma, una stazione della metropolitana. Due donne, un’italiana euna romena litigano, per quelli che vengono definiti futili motivi, una precedenza e una spinta forse involontaria, un insulto alla romena che reagisce con un’ombrellata al volto dell’altra. Disgrazia volle che la punta dell’ombrello le si conficcasse nell’occhio e raggiungesse un punto particolarmente delicato del cervello da provocare la morte. Chiaramente un omicidio preterintenzionale. Ma la romena è stata condannata per omicidio premeditato. Evidentemente in previsione del futuro litigio in metropolitana si era armata di un ombrello.
Quanto si dovrà aspettare perché il carcere possa assolvere davvero la funzione rieducatrice? Come si può pensare che una pena così barbara come l’ergastolo ostativo, che non lascia nessuna speranza di un futuro, possa rieducare?
Mi auguro che questo libro, oltre ad essere un eccellente esempio di letteratura vissuta, serva a sensibilizzare tutti coloro che sono “cittadini rispettabili”, che spesso non per merito loro ma grazie a un po’ di fortuna non hanno mai conosciuto il carcere, alla necessità di abolire l’ergastolo, a non dividere la popolazione fra onesti- quelli fuori- e delinquenti-quelli dentro- Leggendo questo libro si impara quanta umanità può esserci anche “dentro”, forse più dentro che fuori.
(“Gli uomini ombra e altri racconti”, Ed. Gabrielli, 2010, € 14,00)