Di David Spiegelman
Il dio dei disincontri e delle coincidenze perdute assimila, cadenzati di mezzo secolo, i passaggi in ombra nei distinti 26 settembre di due esuli dalla realtà capaci di interpretarla con la presbiopia dell’intelligenza.
Walter Benjamin lasciò questa esistenza rinnegandola, vinto dalla sofferenza collettiva divenuta puntiforme nella sua solitudine di fuggiasco; Alberto Moravia si attrezzò invano una sopravvivenza letteraria, per svanire rapidamente nella memoria, con velocità ancor più intensa di quanto non esigesse un’opera commisurata a un tempo non ripetibile. «L’angelo della storia – è la sentenza di Benjamin – ha il viso rivolto al passato».
Lo scrittore romano riemerge adesso in una luce particolare e, per certi versi, sdrucciolevole, da una ricerca archivistica, che rende nota una lettera scritta a diciott’anni alla zia Amelia Rosselli. «Se vuoi tutta la mia opinione – scrive Moravia criticando “le signorine della borghesia italiana”- ti dirò che sono quelle signorine lì che diventano in maggior numero tra tutte buone madri e buone mogli: non è ad esse che si può elargire il voto politico… Io penso che l’ingenuità d’anima sia molto diffusa tra le donne italiane anche tra quelle che non sembrano averla».
Il futuro autore de “Gli indifferenti” era poco più che un ragazzo, il fascismo doveva ancora radicarsi in un Paese che lo avrebbe prima assunto a forma ontologica per disconoscerlo fuori tempo massimo senza quindi mai elaborarne il lutto; eppure in quelle considerazioni giovanili di un marxista mai critico c’era la radice delle contraddizioni e della disarmonia che hanno scollegato il ceto degli intellettuali dal popolo, secondo un canone che ha isterilito negli anni l’effettiva partecipazione degli artisti alle funzioni di indirizzo e di indottrinamento delle masse, in direzione contraria rispetto al canone togliattiano che considerava l’egemonia culturale un presupposto e non già una conseguenza di quella politica.
Nel sessismo di Moravia non alligna soltanto una forma di pregiudizio misogino che pure, a ben vedere, è parte non secondaria della sua opera, dove i personaggi femminili scontano aspetto e conseguenze di una condizione subalterna rispetto a quelli maschili. Le parole dello scrittore, sia pure inscritte in una fase giovanile del cammino, indicano una profonda sfiducia nei meccanismi elementari del suffragio universale e, quindi, della stessa democrazia; sfiducia congiunta a un pregiudizio antiborghese che, formulato da un esponente dell’alta borghesia della Capitale, suona doppiamente equivoco.
Se superficiale è l’assunto per cui le donne, specie se provenienti dalla “borghesia” (categoria irreversibilmente codificata ai tempi della Rivoluzione e mai più aggiornata, neppure alla luce dello stravolgimento sociale operato dai moduli dellla civiltà industriale), difettano del raziocinio minimo necessario per disporre di sé e degli altri, quando invece la storia – compresa quella, congetturale, della letteratura – è prodiga di donne in grado di trasformare la propria presunta “ingenuità” in un’arma inesorabile, suona sinistra l’idea che presiede a una sorta di limitazione dell’elettorato attivo e passivo in base al quoziente di intelligenza.
Nelle frettolose affermazioni moraviane, infatti, si rinvengono i primordi dello snobismo irreversibile dell’intelligencija italiana di sinistra, o meglio intelligencija italiana tout court, rispetto a quel popolo di cui pure si erge a tutrice e vindice. Il postulato per cui le donne, così come in generale tutti i soggetti considerati deboli nelle virtù analitiche o speculative o politologiche – farebbero danno a se stesse se, votando, decidessero del proprio destino, rappresenta una variante del classico scenario che vede il popolo ridotto a gregge, incapace quindi di guidarsi in autonomia all’emancipazione, bisognoso piuttosto di una guida meglio dotata, che supplisca alle sue carenze.
Sullo sfondo, si ripropone così lo schema concentrazionario della “Repubblica dei filosofi”, con i migliori a esercitare le funzioni di governo, senza che neppure lo stesso Platone si sia mai peritato di spiegare come mai si potesse arrivare a definire in maniera non iniqua chi fossero i filosofi e chi le pedine del popolaccio, ovvero in quale maniera le procedure dell’autoelezione a reggitori della cosa pubblica potessero escludere abusi e favoritismi.
Dalle parole del giovane Moravia, che si dice sinceramente preoccupato per l’efficienza di un sistema elettorale che verrebbe ossidato dal volubile e bambinesco voto della borghesia femminile, traspare così una profonda e radicale sfiducia nella stessa democrazia, giudicata oggi dai suoi attori efficace soltanto qualora i suoi risultati formali coincidano con la convalidazione delle prospettive ora degli uni, ora degli altri. Il concetto di fondo è: gli elettori sono tutti stupidi, le donne come gli uomini, tranne quelli che votano per me. Corollario non infrequente è reputare stupidi anche e soprattutto quelli che mi hanno votato.
Come direbbe Moravia: ambizioni sbagliate.